In Be Outraged, un recente rapporto redatto per Oxfam, diversi economisti e scienziati sociali suggeriscono misure alternative all’austerità per uscire dalla crisi e puntare all’uguaglianza
Le politiche di austerità che stanno mettendo in ginocchio l’Europa, riducendo la crescita e aumentando il livello di povertà, non risolvono la crisi: al contrario, si inseriscono in un quadro di «cattiva economia, cattiva aritmetica e oltretutto ignorano le lezioni della storia». Questo è in sintesi il punto di partenza del discorso sviluppato da una serie di economisti e scienziati sociali nelle pagine del testo Be Outraged. Il rapporto, redatto per Oxfam, va al di là della semplice indignazione, e indica le alternative economiche e sociali possibili per l’Europa e per tutti quei Paesi che oggi non riescono a immaginare una via diversa per uscire dalla crisi.
La disoccupazione crescente, scrivono gli autori, è un vero e proprio spreco per le economie e insieme una tragedia per le persone: un adulto su dieci in Europa è disoccupato (per un totale che supera i 24 milioni di persone) e, cosa ancora più allarmante, il 22% dei giovani europei sotto i venticinque anni non trova lavoro e vede allontanarsi velocemente e inesorabilmente la prospettiva di una vita dignitosa.
Nel 2009 abbiamo assistito a una prima fase in cui sono state portate avanti misure di stimolo alla crescita che hanno effettivamente conseguito dei primi effetti positivi. Queste politiche però non sono state incoraggiate e la loro sospensione è stata accompagnata da altri errori: la mancata revisione dei meccanismi di regolamentazione e di controllo dei sistemi bancari e finanziari, oltre alla strutturale debolezza delle misure adottate per far fronte alle tendenze pericolose di una globalizzazione finanziaria che, se non governata e non regolamentata, comporta una congenita crescita delle disuguaglianze e il dilagare della precarizzazione del mercato del lavoro. Il tutto accompagnato da una sempre più scarsa considerazione delle donne e della più generale etica della cura (del resto già nel 1993 Joan Tronto nel suo “Confini morali” aveva scritto che «la cura è una preoccupazione centrale della vita umana. È tempo di iniziare a cambiare le nostre istituzioni politiche e sociali per riflettere questa verità»).
Per capire come incamminarsi sulla strada giusta gli autori ci propongono di prendere esempio da alcuni Paesi non occidentali, ma anche dalla nostra stessa storia: Paesi come la Corea, l’Indonesia, la Thailandia, il Costa Rica e la Cina hanno deciso di rispondere alla crisi continuando a sostenere la crescita, concentrando gli investimenti nell’educazione e nella creazione di programmi per contrastare la disoccupazione giovanile, mentre Brasile, Thailandia, Malawi, Argentina, Cile, Malesia, Venezuela e Bolivia nell’ultimo decennio hanno ridotto le disuguaglianze attraverso politiche fiscali a tutela dei più poveri e misure di protezione sociale per i più deboli.
Per quanto riguarda il settore finanziario, è chiaro che la finanza può positivamente sostenere l’economia reale, anziché comprometterla, ma affinché ciò avvenga sono necessari un’attenta regolamentazione e un forte controllo: il timone della nave deve essere guidato non più dal “Cattivo Padrone” ma dal “Buon Servitore”. Pochi significativi dati possono aiutarci a capire che cosa ha implicato e che cosa ancora implica il modello neoliberista: nel 2011 i top manager delle 100 aziende che compongono l’indice FTSE – le 100 società più capitalizzate quotate al London Stock Exchange – hanno visto aumentare i loro stipendi, indennizzi e bonus in media del 49%, nonostante i non brillanti risultati ottenuti dalle loro aziende; l’1% più ricco della popolazione mondiale (61 milioni di individui opulenti) guadagna quanto il 56% più povero (3,5 miliardi di persone); due persone su cinque a livello mondiale vivono sotto la soglia di povertà, che è fissata per 2 dollari al giorno; circa 20.000 bambini muoiono ogni giorno a causa di malattie curabili e un migliaio di donne muoiono a causa di complicazioni legate alla gravidanza e al parto.
«Problemi globali richiedono soluzioni globali», cioè azioni coordinate per governare efficacemente la globalizzazione. E, si potrebbe dire, ingiustizie globali richiedono un’inversione di rotta a livello globale e l’introduzione di alternative economiche “dal volto umano”, quelle che in nome della giustizia sociale creino nuove opportunità di lavoro, propongano un modello di sviluppo e di crescita sostenibile, sostengano la tutela della salute e l’istruzione, si impegnino a offrire protezione sociale a coloro che vivono al di sotto della soglia di povertà. Alternative economiche che, di fronte al progressivo invecchiamento dell’umanità, cerchino risposte che vadano al di là dell’abbassamento delle pensioni e dell’estensione della precarietà e della mobilità per i giovani.
Il cammino è lungo e certamente in salita, ma è necessario che i governi di tutto il mondo portino avanti un processo di ristrutturazione e di ripensamento delle fondamenta delle loro economie per affrontare le sfide del XXI secolo: la cura, il cambiamento climatico e la sostenibilità ambientale. L’aspettativa di vita per un quarto dei giovani europei si aggira intorno ai 100 anni; il problema di come consentire loro una vita dignitosa, nel rispetto dell’emergenza climatica e ambientale e in un’ottica di solidarietà internazionale, si deve porre da subito. Per questo si deve rafforzare il sistema internazionale e rendere le sue politiche più efficaci e democratiche, a partire da un’azione di controllo sul sistema finanziario globale, che passa anche per la tassa sulle transazioni finanziarie e la riforma di istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Bisogna imparare dalla più recente esperienza di quei Paesi in via di sviluppo che hanno rifiutato il rigore e l’austerità, in nome di rinnovate politiche di stampo keynesiano e di un “New Deal” sia per i Paesi sviluppati che per quelli in via di sviluppo, i cui i benefici siano condivisi dalla società tutta, non solo da pochi.
Nonostante tutto, non è troppo tardi! – affermano gli autori. Ma più a lungo verrà rinviata una inversione di rotta a livello nazionale e internazionale, più sarà difficile guarire la malattia, più amare saranno le medicine e più lunga la sofferenza umana causata da questo inutile ritardo.