“Se potessi avere 1000 euro al mese”. Un libro-inchiesta di E. Voltolina sull’Italia sottopagata. Come i buoni lavori del ceto medio sono diventati la giungla del sottosalario giovanile
Medici, avvocati, consulenti, giornalisti, registi, commercialisti, artisti, consulenti… Titoli nobili, da ceto medio alto, un tempo. Oggi titoli di diversi capitoli della nostra “Italia sottopagata”, che aspira a quei mille euro che fino a qualche anno fa erano l’etichetta di una generazione e invece adesso sono un miraggio, per la stessa generazione e le successive. “Se potessi avere 1.000 euro al mese. L’Italiasottopagata”, è il titolo di un libro-inchiesta che esce in questi giorni per Laterza, scritto da Eleonora Voltolina – giornalista e scrittrice che qualche hanno fa ha avuto la felicissima idea di fondare La repubblica degli stagisti e da allora non si è più allontanata dal tema (o meglio, è il tema del lavoro precario e sottopagato che non si è più allontanato da lei e da noi). Il libro intreccia storie, riflessioni, normative e ricerche, seguendo un filo conduttore: che non è quello, ossessivamente proposto in questi giorni dal tavolo della megatrattativa in giù, delle forme contrattuali, bensì quello dei soldi che su quelle forme viaggiano (o non viaggiano). La risposta alla domanda: quanto mi paghi, per questo lavoro? Concreta, cruda e immediata: sempre poco, sempre meno. A volte niente.
Non a caso l’autrice ha cominciato proprio dagli stage: la forma tipica, e prolungata, di lavoro gratuito. In questo libro, si sale sui gradini successivi dell’Italia sottopagata. Quelli che non danno soldi ma titoli, come il praticantato necessario per accedere a un esame di stato e poi svolgere una professione. Tirocinio d’alto livello, ma svolto gratuitamente negli studi privati così come (è una delle denunce meritoriamente sollevate da La Repubblica degli stagisti) nel pubblico, come dimostrano i casi dell’Inps e dell’Avvocatura di Stato che usano i giovani praticanti senza pagarli. Appena uno scalino più su, c’è la professione più ambita e preziosa, quella a cui universalmente nel mondo si riconosce prestigio e utilità sociale: il medico. Anche se i giovani medici, i cosiddetti specializzandi – i giovani che incontriamo in ospedale, presenza numerosa e essenziale per la sopravvivenza di alcuni reparti – sono tra i pochi “tirocinanti” che una paga ce l’hanno, tanto bene non se la passano: le loro storie, i racconti sui tanti ostacoli e tempi morti che si devono attraversare per arrivare all’ambito posto in specializzazione, e anche su quel che succede dopo, rimandano un’immagine lontana dal prestigio della professione, più vicina a quella dei tanti “sfigati” (per dirla col governo) che affollano altre aule, altri posti di lavoro, e si alimentano di altre attese. Tutti destinati a professioni da ceto medio e alto: anzi, ex medio ed ex alto. Come i giovani avvocati, tra i quali la concorrenza per uno strapuntino in uno studio e la caccia al cliente è forsennata; i giovani giornalisti pagati a pezzo – quelli della Campania hanno lanciato una campagna con lo slogan “Non lavoro per meno di 50 euro”; i ricercatori, sui quali la letteratura di denuncia è ormai sconfinata; gli artisti, vittime di un più insidioso ricatto, quello per cui si accetta di guadagnare poco o niente in cambio della possibilità di fare un lavoro bello e creativo; tutti i forzati del praticantato, definito efficacemente come “il nonnismo delle professioni”; e gli specializzati con master, ulteriore forma di prosecuzione degli studi dopo la laurea, spesso un costoso cuscinetto per ammorbidire l’attesa di un lavoro che non c’è.
Il merito principale del libro è nel narrare in tutta la sua estensione l’enorme e rapida trasformazione di lavori buoni, che davano status sociale, in lavori cattivi, in bilico sulla soglia di povertà, e nel farlo senza toni pietistici né scandalistici, facendo parlare i protagonisti, e mantenendo anche la precisione dei riferimenti a numeri, normative, fatti. Siamo lontani anni luce dalla rappresentazione antica e macchiettistica del mondo dei “giovani e precari” come portatori di un’unica speranza e rivendicazione: il posto fisso. Molti di loro preferirebbero, a quella che Monti ha definito la monotonia del posto a vita, “l’ebbrezza di lavorare ed essere pagati”: pagati bene, per quel che si è e che si fa. L’autrice del libro fa derivare, da questa ampia inchiesta, una lista di nove manovre, necessarie per “cambiare musica”. Sua convinzione è che alla radice del male ci sia il dualismo del mercato del lavoro, e che le garanzie di chi è dentro funzionino da tappo per chi è fuori: un’impostazione non lontana da quella portata avanti dalla stessa ministra Fornero, e dalle proposte di riforma degli istituti contrattuali ispirate al “contratto unico”. Ma di molte delle “track” che poi Voltolina propone per cambiare musica (dal salario minimo agli ammortizzatori sociali universali) ai tavoli di palazzo Chigi non c’è traccia. Forse perché, tra i presenti al tavolo stesso, del mondo raccontato in questo libro c’è poca o nessuna esperienza diretta.