Domani il Consiglio dei Ministri si appresta a sancire una decisione già presa dal governo senza alcun coinvolgimento del Parlamento: l’invio di 450 militari italiani in Iraq. Quella italiana non sarebbe una missione umanitaria ma un intervento neocoloniale a tutto tondo.
Roma, 3 febbraio 2016. Venerdì il Consiglio dei Ministri si appresta a sancire una decisione già presa dal governo senza alcun coinvolgimento del Parlamento: l’invio di 450 militari italiani in Iraq a protezione del cantiere della ditta Trevi di Cesena, che ieri ha formalmente vinto l’appalto iracheno per l’intervento urgente di restauro della diga di Mosul. Il governo iracheno ha ricevuto dalla Banca Mondiale 200 milioni di dollari per pagare i lavori, e con questo prestito gli USA sono riusciti a zittire le proteste di Baghdad in merito alla presenza militare italiana nei confini iracheni in un luogo così strategico. Solo i politici iracheni che vedrebbero meglio un presidio iraniano nell’area oseranno protestare. Ma c’è chi chiede che siano truppe irachene a proteggere il territorio e la popolazione, come le associazioni della “Save the Tigris Campaign” che auspicano un intervento urgente sulla diga ma denunciano come il governo iracheno non abbia messo le proprie informazioni a disposizione degli ingegneri e delle ditte irachene, e non abbia chiesto alle truppe irachene un impegno a difendere tecnici e operatori che lì lavoreranno.
La società civile irachena ce lo dice con chiarezza, al di là del silenzio dei politici: quella italiana non sarebbe una missione umanitaria ma un intervento neocoloniale a tutto tondo. Siamo davanti ad un modus operandi tipico della compagnia delle Indie nel 1800, una modalità che speravamo tramontata con la fine del colonialismo. L’impiego dei militari a tutela di un affare economico è in contrasto con lo spirito e la lettera della nostra Costituzione e crediamo sia umiliante per le nostre stesse Forze Armate. Non si comprende inoltre a cosa siano valsi i copiosi investimenti italiani di questi anni per addestrare le truppe locali se i militari iracheni non sono neanche in grado di garantire la sicurezza di un cantiere. La verità è che la diga è un pretesto che si usa per far digerire meglio all’opinione pubblica una nuova partecipazione italiana all’occupazione militare dell’Iraq. L’Italia ha partecipato, dal 1991 in poi, a tutte le guerre in Iraq e si è resa corresponsabile della immensa tragedia in cui versa il popolo iracheno e sulle cui sofferenze è prosperato il mostro di Daesh (IS). Ora con l’invio del nuovo contingente l’Italia avrebbe circa 1.000 soldati in Iraq e diventerebbe il secondo paese per presenza di truppe dopo agli USA.
Un ponte per… da sempre al fianco delle vittime della guerra e a sostegno della popolazione irachena invita il governo italiano a non farsi trascinare dalla politica avventuristica dell’amministrazione Usa, i cui esiti rischiano d’innestare una escalation dalle conseguenze imprevedibili. Daesh infatti potrebbe strumentalizzare l’invio in Iraq di nuove truppe occidentali per attirare sempre più foreign fighters e far serrare intorno a sè le milizie sunnite, tra le quali invece è necessario lavorare per separare le parti laiche e nazionaliste, da quelle criminali e fondamentaliste. L’Italia potrebbe invece giocare un ruolo di primo piano nella soluzione politica e diplomatica alla minaccia di Daesh, agendo sul piano umanitario, quello diplomatico e del sostegno ai processi di pace e riconciliazione tra comunità, già avviati in Iraq con il sostegno dell’ONU e di associazioni internazionali come la nostra. E’ urgente deviare i copiosi stanziamenti italiani per la lotta a Daesh dal fronte militare a quello politico.