I dati che provengono dall’economia sono disastrosi. Intanto il governo aggiorna le previsioni contenute nel Def di aprile e chiede di spostare di un anno il pareggio di bilancio
Il dibattito sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori e, più alla larga, sulla “riforma” del mercato del lavoro, fino a qualche giorno fa, aveva fatto scivolare sullo sfondo il tema che oggi è al primo posto nell’agenda del paese: il peggioramento del quadro macroeconomico nazionale e la sua relazione con i vincoli imposti dal patto di bilancio europeo.
In verità le due cose hanno una correlazione strumentale, ma, come appare chiaro, saranno le prossime scadenze di bilancio (legge di stabilità, legge di bilancio) e le raccomandazioni del “semestre europeo” (ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nell’ambito dell’UE) a segnare il passo del nostro paese nei prossimi mesi.
Nel frattempo è stata approvata la nota di aggiornamento al Def 2014, un documento che, nella sostanza, rappresenta la certificazione del fallimento dell’azione di governo sul versante economico- finanziario ed occupazionale. E i nodi sono venuti prepotentemente al pettine.
Vediamo perché. Il Documento di Economia e Finanza approvato ad aprile, ancorché con prudenza, delineava uno scenario per l’anno in corso in cui la fuoriuscita definitiva del paese dalla recessione sarebbe stato l’asse attorno al quale avrebbero girato tutti gli altri parametri economici e di finanza pubblica. Grave errore di previsione: al terzo trimestre il Pil è ancora accompagnato dal segno meno, una tendenza che, ormai, sarà confermata anche su base annua. E la crescita? L’anno prossimo, come ogni anno, di anno in anno.
È del tutto evidente che non stiamo parlando dello scostamento di qualche decimale rispetto ad una stima iniziale sul Pil già molto prudente, ma della differenza, sostanziale, che c’è tra il prevedere un’economia in crescita ed il ripiombare nella recessione, con tutti i risvolti economici, sociali, perfino psicologici, che essa porta con sé. Leggiamo cosa c’era scritto nel Def di aprile: «Gli indicatori congiunturali più recenti prefigurano la prosecuzione della fase ciclica moderatamente espansiva. (…) In base alle informazioni disponibili, si prospetta un moderato aumento del Pil nel primo trimestre e una ripresa più sostenuta nei trimestri successivi». Chissà da dove le avevano prese le “informazioni” Renzi e Padoan. Certo è che in un paese serio il governo avrebbe già dovuto dimettersi. Ma tant’è.
Dal lato dei vincoli europei questa nuova situazione fa saltare non solo tutte le previsioni contenute nel Def 2014, ma anche i piani approntati dal governo per far rispettare al nostro paese, alla lettera e nei tempi stabiliti, gli impegni relativi al conseguimento del pareggio di bilancio ed all’abbattimento del debito.
A ragion veduta, nondimeno, ci si aspetterebbe che il governo approfittasse di questa evenienza per cambiare radicalmente il proprio approccio al tema della crescita, incominciando, ad esempio, dal pretendere una moratoria (2-3 anni) sui vincoli del Fiscal compact. E invece no. Per l’obiettivo di medio termine (OMT), che per l’Italia significa un deficit compreso tra lo 0,5 per cento del PIL e il pareggio o l’attivo, è stato previsto solo uno slittamento (il ritocco per il 2016 è di un decimale su base annua) al 2017. È per caso la flessibilità di cui tanto si parla? Macché, solo un po’ di elasticità nella tabella di marcia del “risanamento” dei conti pubblici, peraltro già contemplata nelle regole dell’Unione Europea e nella legislazione interna che ha recepito i vincoli del Fiscal compact nei casi di aggravamento del ciclo economico, che, tuttavia, dovrà essere ripagata con pesanti interventi “chirurgici” sul versante della spesa pubblica e della demolizione del welfare (le famigerate “riforme strutturali”). Una cosa un po’ diversa dalle rivendicazioni del governo francese, a dispetto del tentativo che si sta facendo, sul piano mediatico, di accostare la posizione del nostro governo a quella degli “amici” d’oltralpe.
Torniamo all’inizio del nostro ragionamento. Entro il 15 ottobre va presentata, contestualmente (quando si dice “democrazia esautorata”!) al Parlamento ed alla Commissione europea, la legge di stabilità accompagnata dalla nota di aggiornamento del Def. Su di essa incombono le raccomandazioni di giugno (semestre europeo) della Commissione, i vincoli del patto di bilancio europeo, i dati disastrosi che provengono dall’economia. Da mesi si parla di una manovra da 20 miliardi almeno. Dallo slittamento del pareggio di bilancio al 2017 potrebbero essere ricavati una decina di miliardi di euro (stima del Tesoro), che, secondo il governo, dovrebbero servire per stimolare la “crescita”. Ciò a fronte di una spending review che, per usare le parole del ministro Padoan, «continuerà e sarà approfondita». Come a dire: con una mano do e con l’altra tolgo. Sempre nel solco delle politiche di austerità e nel rispetto, pedissequo, dei vincoli di bilancio europei.
A proposito, il semestre italiano di presidenza della Ue è iniziato da tre mesi e tra poco giunge a termine. Al suo insediamento Renzi aveva detto che le priorità del suo mandato sarebbero state la crescita e l’occupazione, in quanto «valori costitutivi di un’UE che non sia solo rigore».
Ad oggi, non solo non ha fatto nulla per cambiare l’agenda europea in questa direzione, ma, anche sul piano interno, sembra poco interessato a divincolare il nostro paese dalla morsa asfissiante dei parametri recessivi che ci legano al consesso euro-monetario.
Di più. Proprio per stare al gioco dei vincoli e del sistema di sorveglianza sui bilanci pubblici vigente oggi in Europa, accanto alla promessa di stare “dentro” i parametri finanziari (mai oltre il 3%!), ha gettato sul tavolo l’asso della riforma (“strutturale”) del mercato del lavoro, che istituzionalizza (contro la Costituzione) la discriminazione dei lavoratori su base generazionale (tutele crescenti), aumenta il potere ricattatorio dei datori di lavoro, cancella dall’ordinamento diritti (quel che rimane della reintegra per motivi economici) che appartengono, non solo simbolicamente, alla civiltà europea del lavoro.
Tutto secondo copione. Flessibilità dentro i parametri stabiliti in cambio di ulteriori picconate all’edificio del welfare. C’è da giurare che di questo passo l’anno prossimo torneremo a discutere degli stessi problemi.