Sdebitarsi/L’indebitamento complessivo è salito a 200 trilioni di dollari, il 286% del Pil mondiale. Ma qual è la misura accettabile?
La questione dei debiti è venuta alla ribalta in maniera prepotente in tempi recenti, prima con la crisi del 2008, poi, più specificamente in Europa, con i drammatici problemi di paesi come la Grecia e l’Ucraina – mentre sullo sfondo si collocano anche quelli dell’Italia. Che nel mondo ci sia un livello complessivo di indebitamento, considerando insieme quello dei privati, delle imprese e del settore pubblico, troppo elevato e in continua crescita appare probabilmente vero. Un recente rapporto Mckinsey (Mckinsey Global Institute, Debt and (not much) deleveraging, www.mckinsey.com, febbraio 2015) indica come il debito complessivo a livello mondiale sia aumentato di 57 trilioni di dollari tra il 2007 e il 2014, raggiungendo alla fine di quest’ultimo anno i 200 trilioni.
La sua incidenza sul pil mondiale è passata parallelamente dal 270% al 286%. Sembra che non si salvino ora né i paesi ricchi né quelli emergenti e neanche quelli usciti indenni dalla crisi. Vogliamo ricordare che da parte della destra ci si è sempre preoccupati del livello considerato sempre come troppo elevato del debito degli Stati, molto meno di quello privato; in conseguenza, si chiede in ogni occasione la riduzione del peso del settore pubblico e dell’intervento dello stato in economia. A sinistra si è sempre guardato con più indulgenza al fenomeno. L’aumento del debito pubblico è stato tradizionalmente visto come positivo; esso può portare investimenti, sviluppo dell’economia, occupazione. Si pensi ad esempio, alla crescita, in questi anni, dell’economia dei paesi emergenti, che difficilmente avrebbe potuto avere luogo senza di esso. O alla situazione contraria di paesi come la Germania e gli Stati Uniti, che hanno un sistema di infrastrutture che avrebbe bisogno di essere fortemente migliorato, ciò che non succede perché i reggitori di tali paesi vogliono mantenere i livelli di debito e di deficit pubblico entro limiti molto stretti. Appare difficile valutare quale sia un livello di debito da considerare come eccessivo per il settore pubblico come per quello privato. Il giudizio va in effetti collegato a molte variabili. Bisognerebbe intanto considerare che un aumento dell’indebitamento può servire ad obiettivi molto diversi: si può così distinguere tra i prestiti posti in essere per finanziare una politica di sviluppo, quelli necessari per superare una situazione di temporanea illiquidità, quelli infine che si chiedono per coprire un quadro di progressivo dissesto. D’altro canto, i debiti possono essere usati per impieghi diversi da quelli dichiarati, o possono perdersi in gran parte nei meandri di una burocrazia corrotta ed inefficiente. Nel caso del debito pubblico greco o di quello italiano si può certamente deplorare il fatto che esso sia stato poco utilizzato per finanziare lo sviluppo ed invece molto per impieghi clientelari. Tra le variabili da considerare bisognerebbe poi analizzare il suo costo e la generazione dei futuri flussi di cassa; per il debito pubblico, bisognerebbe mettere in conto i tassi di crescita dell’economia, il livello di inflazione del paese, la percentuale di debito detenuta da operatori esteri, il regime dei cambi, ecc.. È stata dimostrata la scarsa fondatezza della nota teoria avanzata qualche anno fa da Carmen M. Reinardt e Kennet S. Rogoff secondo la quale un rapporto debito pubblico/pil che superi il 90% sia da considerare come troppo elevato. Tra l’altro, anche la base dei dati su cui poggiava la tesi appariva molto fragile. Nel caso cinese abbiamo assistito negli scorsi anni ad un forte aumento dei livelli dell’indebitamento complessivo: si è passati da un rapporto che era pari al 150% del pil nel 2008 ad uno del 280% circa del 2014. Non manca qualche preoccupazione in proposito, ma bisogna intanto considerare che l’economia del paese cresce ancora del 7% all’anno, che la grande maggioranza dei debiti è detenuta in patria, che in molti casi i creditori e i debitori rispondono allo stesso padrone, il governo e che i prestiti sono fortemente concentrati nei governi locali e in un ristretto numero di imprese (The Economist, 18 aprile 2015). Il debito italiano non solo è più elevato di quello cinese, superando ormai abbondantemente il 300% del pil, ma esso deve preoccupare molto di più del primo a livello della sua sostenibilità, essendo le prospettive di crescita dell’economia e quelle dell’inflazione molto negative. Alla fine, appare difficile contestare il fatto che il mondo naviga oggi in una grande bolla debitoria da cui sembra molto difficile uscire. Ci troviamo peraltro, a livello mondiale, contemporaneamente con troppe liquidità ed un eccesso di risparmi sugli investimenti. Le due cose sono, per altro verso e almeno in parte, collegate. Un merito dello studio McKinsey è quello di raccomandare nuove vie per governare almeno il problema del debito. Esso indica strade come quelle di una migliore ripartizione dei rischi tra creditori e debitori, senza lasciare invece tutto il peso sui debitori, di una ristrutturazione delle scadenze e, almeno in alcuni casi, della cancellazione pura e semplice di quanto dovuto. Uno dei meriti anche del nuovo governo greco è quello di aver posto la questione in una luce nuova, quella di una necessità di cambiare politica. Ci vorrebbe in ogni caso, in generale, una qualche forma di coordinamento a livello mondiale di tali fenomeni. Sarebbe necessario arrivare ad un rilevante aumento degli investimenti, di cui non manca certo la necessità, a livello pubblico come a quello privato, in presenza anche di risparmi abbondanti. Il problema è che nessuno sembra disposto ad accollarsi una parte del carico relativo ad una risistemazione degli assetti finanziari del mondo. E in Europa nessuno sembra disposto a darsi troppo da fare per il debito greco.
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