Possono sopravvivere in Europa l’auto, l’acciaio, la meccanica, la chimica? Anche quest’ultimo settore è in forte contrazione mentre avanza in Cina e nel Golfo. Le classi dirigenti economiche, finanziarie e politiche del nostro continente non sembrano in grado di scelte strategiche e si rifugiano nel business delle armi.
L’andamento del settore
Si discute da molto tempo delle difficoltà crescenti che incontra nel suo cammino l’economia dei paesi dell’UE, in particolare in confronto a quelle degli Stati Uniti e della Cina. Sono abbastanza note le difficoltà in cui si dibattono in Europa alcuni settori già trainanti dell’industria del continente, quali l’auto, che fornisce lavoro ad almeno 14 milioni di persone nella UE secondo una stima prudenziale, o quelle dell’acciaio – il numero degli altoforni attivi nei paesi europei era di 160 nel 1961, ora è di soli 5 e il settore è nel nostro continente plausibilmente in via di estinzione -, settori nei quali l’Italia soffre da tempo in modo particolare.
Meno messe in evidenza sono le difficoltà di altre attività, in particolare della chimica. Insieme i tre settori citati indicano con evidenza un processo in atto di deindustrializzazione del nostro continente, anche perché d’altro canto nelle attività tecnologicamente più avanzate, dai chip all’IA, alle produzioni nel campo ambientale, ai sistemi di trasporto più recenti, il nostro continente appare in ancora più gravi difficoltà. Così, ad esempio, nei chip le poche grandi imprese europee che vi operano giocano in terza categoria, mentre nell’IA ad una qualche presenza nel nostro continente di molte delle competenze di base non corrisponde in alcun modo una capacità produttiva significativa.
In generale, il mondo è cambiato, l’industria tedesca no, è rimasta al XX° secolo, come afferma in un suo volume il noto giornalista economico Wolfgang Munchau (Munchau, 2024); ma la sua osservazione si può tranquillamente estendere all’insieme dei paesi che fanno parte dell’UE.
Il settore chimico è stato in sostanza “inventato” a suo tempo nel nostro continente, dapprima con diversi paesi all’avanguardia, mentre a partire della fine dell’Ottocento l’innovazione si è trasferita in particolare in Germania, che ha visto nel tempo una grande ondata di sviluppi e ha mantenuto a lungo la leadership nel campo. Peraltro la sconfitta del paese in due guerre mondiali ha comportato l’obbligo di cedere i suoi brevetti e il suo know-how ai vincitori, ciò che ha contribuito a suo tempo alla diffusione e alla modernizzazione del settore anche negli altri paesi europei e negli Stati Uniti.
Secondo le cifre disponibili, nel 2008 la produzione dei paesi dell’Europa a 27 era nel settore ancora pari al 23% del totale mondiale, mentre nel 2023 è scesa al 13% e continuava a diminuire. Parimenti quella degli Stati Uniti passava nello stesso periodo dal 18% all’11%. Intanto quella cinese è invece salita dal 19% al 43% del totale, con una crescita annua del 13%; in crescita anche quella degli Stati del Golfo, che passano dal 3 all’8% e con uno sviluppo del 14% all’anno. Le altre aree del mondo sono anch’esse in discesa (così il Giappone passava dal 7 al 3%) o in stagnazione (Buchardon, 2025).
L’andamento è simile a quello dell’acciaio, dove in pochi decenni la quota dei paesi europei, che era nel 1960 pari a circa un terzo del totale mondiale, si è ormai ridotta al 6% nel 2024 (Bonnefous, 2025), mentre in quello dell’auto la quota, sempre sul totale mondiale, anch’essa molto ridotta nel tempo, si trova ancora di qualche punto percentuale superiore a quello dell’acciaio e vicina a quella della chimica. In ogni caso quest’ultimo settore rappresenta ancora tra il 5 e il 7% delle produzioni europee e impiega circa 1,2 milioni di occupati (Buchardon, 2025), mentre per la sola Italia si stima una cifra d’affari di oltre 67 miliardi di euro nel 2023 con esportazioni per 40 miliardi, con 2800 imprese attive nel territorio nazionale e 113.000 addetti (fonte: agenzia Ageei.eu).
Le ragioni delle difficoltà
Naturalmente ci si può chiedere il perché di tali difficoltà e la risposta non è molto complicata. Per una parte della caduta si è trattato di un fenomeno sostanzialmente naturale, visti i forti processi di industrializzazione dei paesi “nuovi” in atto da tempo; peraltro molta parte dei passi indietro del nostro continente è dovuta ad altro.
Intanto la crescita di nuovi competitori ha comportato un livello di concorrenza molto più elevato di prima, in particolare sul fronte dei prezzi, mentre la guerra in Ucraina, che ha visto il sostanziale arresto della fornitura di energia a buon mercato da parte della Russia in un settore fortemente energivoro, ha fatto il resto. Si tratta nel caso di quest’ultimo del maggior punto di difficoltà. È forte consumatrice d’energia soprattutto la chimica a monte, da cui dipendono molti collegamenti con il resto.
Di fatto la Cina si avvia a catturare quote di mercato ulteriori, si pensi che essa investe ogni anno nel settore circa 100 miliardi di dollari all’anno, contro 25 miliardi in Europa e negli Stati Uniti (Buchardon, 2025), mentre le aggressive decisioni del governo Usa influiscono anch’esse sulle strategie delle imprese. Così quelle europee tendono a chiudere gli impianti da noi e a concentrare i loro nuovi investimenti in Cina e negli Stati Uniti, mentre i paesi del Golfo, dall’alto delle loro abbondanti risorse energetiche e dei capitali altrettanto importanti, tendono anch’essi a diventare protagonisti del settore, anche in collegamento, in molti casi, con produttori cinesi. La chimica si affaccia poi timidamente anche in Africa la Nigeria.
Le imprese chimiche mettono in vendita le loro attività europee, mentre aprono stabilimenti in altre regioni e i punti più attivi sono, come già ricordato, la Cina e i paesi del Golfo. Ha fatto in qualche modo scalpore, l’anno scorso, il fatto che la BASF, mentre bloccava gli investimenti in Germania, avviava l’investimento di 10 miliardi di dollari in un nuovo impianto in Cina; mentre la Ineos ha ceduto parte delle sue attività, la saudita Sabic sta esplorando la possibilità di vendita i suoi impianti in Europa, Dow Chemical, la Lyondell Basell, la Shell, la BP, stanno pensando a cosa fare dei loro impianti nel continente, e in generale 11 milioni di tonnellate di capacità produttiva, collocate in 21 siti europei, sono state programmate per la chiusura (Levingston, Moore, 2025).
I piani europei
Davanti a tante difficoltà, il nuovo governo tedesco ha chiesto a Bruxelles di approvare al più presto un piano per sostenere le imprese tedesche ad alto consumo di energia, in particolare quelle dei settori chimico e siderurgico, attività ritenute dallo stesso governo vitali per mantenere la sovranità dell’Europa. Dal canto suo lo stesso governo sta riducendo le tasse e altri carichi sulla produzione di energia di tali settori (Chassany, Pitel, 2025).
Per la verità la Commissione dell’UE ha già lanciato un dialogo con i principali attori della chimica europea e ha promesso la messa in opera di un piano specifico entro la fine del 2025; il piano dovrebbe, secondo le dichiarazioni ufficiali, sostenere la competitività dell’industria, mantenere la produzione e l’innovazione in Europa, assicurando comunque, nel contempo, obiettivi precisi in tema di tutela ambientale. Ma temiamo che, come i piani varati a suo tempo dalla Commissione per altri settori, il progetto finirà presumibilmente per terminare in una sostanziale irrilevanza. Troppo poco, troppo tardi.
Conclusioni
A quale modello industriale e più in generale economico si deve puntare per tenere a galla i paesi dell’UE, messi in crisi dalle attuali dinamiche del mondo? Vi possono sopravvivere in particolare settori quali l’auto, la chimica, l’acciaio, la meccanica? E a quali condizioni? Comunque, in quali direzioni sarebbe necessario concentrare gli sforzi per un plausibile rilancio dell’economia? Si tratta di domande cui le attuali classi dirigenti economiche, finanziarie, politiche del nostro continente non sembrano saper dare alcuna risposta. Esse si rifugiano quindi, per nascondere il problema e facendo nel frattempo molto rumore, nel business delle armi, quest’ultima peraltro una vocazione antica del nostro continente.
Testi citati nell’articolo
-Bonnefous B., La sidérurgie européenne laminée par la crise, Le Monde, 16 aprile 2025
-Bouchardon W., La chimie, prochain front de la déindustrialisation ?, Alternatives Economiques, n. 458, maggio 2025
-Chassany A.-S., Pitel L., Berlin urges Bruxelles to approve subsidies for germany heavy industry, www.ft.com, 29 maggio 2025
-Levingston I., Moore M., Energy prices push chemical groups to explore exit from Europe, www.ft.com, 11 maggio 2025
-Munchau W., Kaput, the end of the German miracle, Swift Press, Londra, 2024