La recessione ha aggravato le contraddizioni Ue. Si insiste sui bilanci pubblici, mentre la crisi del debito privato richiede politiche comuni per uno sviluppo sostenibile
In questi giorni, proseguendo un dibattito avviato da tempo, il Consiglio europeo sta affrontando argomenti economici rilevanti per il futuro dell’Unione quali: il sostegno ai paesi in difficoltà e i fondi salva-stati; il nuovo Patto di stabilità; le misure per la competitività; la stabilità del sistema bancario.
Il confronto su questi temi tra i paesi membri presenta notevoli problematicità che riflettono sia le difficoltà derivanti dal perdurare della crisi globale sia i problemi specifici dell’Unione europea.
Nei paesi dell’area dell’euro, le motivazioni della crisi economica globale non erano e non sono di maggiore intensità, ma il loro intrecciarsi con le contraddizioni del processo unitario europeo genera effetti più amplificati ed eclatanti.
I pur rilevanti temi all’ordine del giorno nei vertici a Bruxelles richiamano dunque questioni ancora più estese che, tuttavia, fanno fatica ad emergere esplicitamente nel confronto europeo; ciò è dovuto sia all’effetto frenante di contrasti e idiosincrasie nazionali (accentuati dalla guerra libica) sia al perdurare di una visione economica che, dopo aver contribuito alla crisi, adesso ostacola il rilancio della crescita e, ancor più, la sua sostenibilità sociale ed ecologica.
La costruzione dell’Ue – che pure ha una preminente dimensione politico-istituzionale – negli ultimi tre decenni è stata influenzata da una visione neoliberista che considera le istituzioni un ostacolo al funzionamento dei mercati; il processo di unificazione europeo è stato dunque privato di quegli strumenti istituzionali e delle politiche comuni la cui assenza ha reso e rende ancora più dirompenti gli effetti della crisi globale nel nostro continente.
In realtà, quella che viene definita come la crisi dell’euro sta evidenziando la ben nota difficoltà di creare un unico sistema economico che, tuttavia, di unitario ha finora avuto solo la moneta e la politica monetaria e non anche le dinamiche strutturali e la politica di bilancio.
La creazione della moneta unica, con la conseguente abolizione degli aggiustamenti valutari, richiedeva che fosse accompagnata dalla convergenza delle economie; ma in questa direzione finora si è fatto veramente poco. Anzi, l’allargamento dell’Ue a sistemi economici molto disomogenei, ma realizzato senza disporre degli strumenti per favorirne la convergenza, ha reso il progetto europeo più difficile.
La crisi globale ha accentuato queste difficoltà.
L’impossibilità di aggiustare le differenze strutturali tra i sistemi economici nazionali aderenti all’Ue mediante variazioni dei tassi di cambio impone che l’aggiustamento avvenga riducendo i prezzi e/o i redditi dei paesi con disavanzi con l’estero.
Ma questo tipo di aggiustamento è più “doloroso” in termini di bassa crescita e disoccupazione e i suoi effetti negativi si estendono anche ai paesi non in difficoltà. Infatti la deflazione amplifica il valore reale dei debiti, a cominciare da quelli dei privati e, in particolare, delle banche. Per evitare che queste ultime falliscano, prima si chiede l’intervento dei governi – i cui bilanci si appesantiscono ulteriormente – poi, per risanare le finanze pubbliche, si chiedono sacrifici alle popolazioni, e in primo luogo ai lavoratori. Il calo della domanda interna nei paesi con l’economia da risanare genera poi anche un calo delle importazioni e trasferisce gli effetti depressivi negli altri paesi.
Che il Consiglio europeo abbia accordato rilevanza al problema della convergenza delle economie dell’area euro è un fatto positivo, ma il cosiddetto “patto per l’euro” stilato l’11 marzo a Bruxelles tradisce le attese.
Anche per sostenere la moneta unica, occorrono politiche capaci di favorire effettivamente la convergenza reale delle economie nazionali. A tal fine è necessario prendere atto che la sola concorrenza all’interno del mercato unico non ha favorito la convergenza delle economie nazionali, ma l’ha resa più difficile, ed è proprio l’accresciuta disomogeneità interna che ha accentuato gli effetti della crisi globale sull’Unione europea.
Occorre dunque potenziare l’azione di coordinamento, con la consapevolezza che il passaggio da sistemi nazionali concorrenti ad un’economia di dimensioni continentali – che diventerebbe la principale al mondo – allenterebbe sia i vincoli esteri alle politiche espansive interne sia la possibilità di contrastare le manovre speculative sui mercati internazionali.
Il “patto per l’euro” si limita invece alle consuete indicazioni di ricercare la competitività su basi nazionali. A tal fine si fa riferimento esclusivamente alle condizioni dell’offerta; ad un aumento della flessibilità del lavoro e alla riduzione dei costi, tra cui vengono evidenziati quelli per le prestazioni sociali, sanitarie e pensionistiche, continuando a sottovalutare il ruolo che esse possono avere sia per migliorare i presupposti sociali della capacità d’offerta sia le non meno rilevanti condizioni della domanda.
Le politiche di rilancio della crescita potrebbero essere finanziate anche tramite l’emissione di eurobond, mentre la gestione del debito sarebbe favorita da un più convinto intervento della Bce sul mercato secondario dei titoli. L’implementazione del coordinamento della politica fiscale andrebbe sottratta ai condizionamenti delle scadenze elettorali che inducono i politici ad assecondare le idiosincrasie nazionali traducendole in forme di rigorismo strumentali ed asimmetriche che risultano tanto miopi quanto controproducenti.
Riguardo al Patto di stabilità, la crisi irlandese ha mostrato emblematicamente che i problemi per l’euro e per l’Ue non derivano dall’indisciplina dei bilanci pubblici (nel 2007 il debito pubblico irlandese era solo del 12%) ma dai comportamenti opportunistici diffusi nel settore privato, in particolare in quello finanziario. Anche in Spagna il debito pubblico nel 2007 era solo del 27%, ma ciò non ha impedito che oggi sia particolarmente colpita dalla crisi e più esposta alla speculazione internazionale.
È dunque paradossale che con il nuovo Patto si voglia chiedere maggior rigore ai bilanci statali senza fare altrettanto verso i comportamenti opportunistici degli operatori privati che hanno gravato fortemente sui conti pubblici. A tale riguardo va sottolineato che, nonostante la forte responsabilità avuta dal sistema bancario rispetto alla crisi e al peggioramento dei debiti sovrani, nel Consiglio europeo del 10-11 marzo non si è dedicata particolare attenzione alla necessità di procedere alla ricapitalizzazione del sistema bancario che, pare, riguarderà solo le banche che non supereranno gli stress test.
Ma per uscire dalla crisi, anche come si manifesta nell’Ue, non si possono ignorare le sue motivazioni strutturali di carattere globale. Tuttavia, a due anni e mezzo dalla sua esplosione, l’ostacolo maggiore al superamento della crisi sta nell’ancora diffusa resistenza a riconoscere la profondità e la natura reale (non puramente finanziaria) delle sue cause.
Questa riluttanza è alimentata dal perdurante prevalere di interessi materiali, di teorie economico-politiche e di un senso comune nell’opinione pubblica collegati alle modalità del processo economico che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni.
D’altra parte, come diceva Keynes, il problema non sta tanto nell’affermazione delle nuove idee quanto nel liberarsi dalle vecchie.
Per uscire in modo progressivo dalla crisi è necessario rilanciare la crescita, ma tenendo conto dei suoi aspetti qualitativi ed ecologici: cosa si consuma e cosa si produce; con quali tecniche, con quale organizzazione del processo produttivo e con quali modalità d’impiego e partecipazione alle scelte dei lavoratori; come si distribuiscono e si impiegano i frutti del processo produttivo.
Occorre sostenere non solo le condizioni d’offerta, ma anche quelle della domanda mediante un miglioramento della distribuzione del reddito; occorre che il mercato sia integrato e regolato dall’intervento pubblico e, in particolare, dalle politiche sociali necessarie a contrastarne l’instabilità accresciuta dalla globalizzazione.
In Europa, l’adozione e la praticabilità di queste politiche sarebbero molto facilitate sostituendo le competizioni nazionali (o nazionalistiche) con un approccio unitario fondato sulla presa d’atto che il modello d’accumulazione degli ultimi trent’anni va sostituito.
Storicamente, la sinistra ha avuto con il processo d’unificazione europea rapporti ambivalenti.
Accanto a convinti sostenitori c’è sempre stata una corrente almeno dubbiosa, alimentata dalla fondata critica verso le modalità neoliberiste che hanno caratterizzato la costruzione dell’Unione.
Tuttavia, oltre a tener presente le motivazioni storiche del processo d’unificazione europeo, oggi ci si deve rendere conto che questo è il terreno che meglio si presta per l’affermazione di politiche che favoriscano il superamento in positivo della crisi economica; viceversa, i margini per politiche di progresso perseguite autonomamente a livello nazionale sono sempre più ristretti.
La sinistra deve dunque operare con convinzione per riavviare su basi più solide il processo d’unificazione europea; ciò significa incrementare il coordinamento tra le forze progressiste europee per concordare terreni e linee di lavoro comuni capaci di recuperare anche le specificità positive della nostra storia continentale come, ad esempio, il modello sociale europeo fondato sui sistemi di welfare state.