Nel 2012 il mercato del lusso cinese ha superato quello giapponese. Troppa diseguaglianza, anche per la Cina. Che apre un cantiere di riforme fiscali e non solo
Alla vigilia delle feste di Capodanno le radio e le televisioni pubbliche cinesi si sono viste proibire la messa in onda degli spot che pubblicizzavano regali di lusso. “Diffondono valori sbagliati e contribuiscono a creare un cattivo ethos sociale” ha sentenziato la State Administration of Radio, Film and Television nell’emettere la fatwah. Unita ai comportamenti austeri e sobri imposti dalla nuova leadership all’apparato, la proibizione appare piuttosto un tentativo maldestro di occultare una realtà, quella di una ricchezza sfacciata e talvolta accumulata con mezzi illeciti, verso la quale la maggioranza dei cinesi mostra una crescente insofferenza.
Nel 2012 il mercato del lusso in Cina ha superato quello giapponese e secondo alcune fonti è già il primo del mondo, e se i miliardari (in dollari) cinesi sei anni fa erano appena 15, nel 2011 erano 251 (Hurun Report, 24/9/2012). Ma l’“arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping pare caduto in disgrazia. Dietro quell’esortazione c’era la convinzione che l’eguaglianza di stampo maoista fosse una palla al piede della crescita e che la competizione sarebbe stata il motore del nuovo sviluppo, paragonato all’acqua che sale sollevando tutte le barche, piccole e grandi. Dopo oltre tre decenni di corsa però, la grandezza relativa delle barche si è fatta sproporzionata.
Nel gennaio scorso l’Ufficio centrale di statistica cinese ha diffuso, per la prima volta in 12 anni, i valori ufficiali del coefficiente di Gini. L’indicatore (che aggrega le diseguaglianze di reddito in un’unica misura da 0 a 1 dove 0 è l’eguaglianza perfetta e l’1 il divario assoluto) è arrivato in Cina a 0,474 e il paese è oggi uno dei più ineguali del mondo, persino un po’ più degli Usa, anche se il valore è in calo rispetto al 2008, quando era a 0,491.
I dati ufficiali sono stati accolti con scetticismo e sarcasmo. C’è chi ricorda ancora le cifre diffuse due anni fa da Wang Xiaolu, ricercatore della China Reform Foundation, che faceva ammontare l’economia “grigia” del paese a circa 1.500 miliardi di dollari ammassati soprattutto dai più abbienti attraverso evasione, corruzione e lavoro nero (The Economist, 13/10/2012, Special Report on the World Economy). Se tenesse conto anche dei circuiti occulti, il coefficiente si avvicinerebbe a quello riportato lo scorso anno da uno studio della Southwestern University of Finance and Economics del Sichuan secondo il quale nel 2010 il Gini cinese avrebbe toccato lo 0,6 (Financial Times, “China wealth gap data challenged”, 19-20/1/2013), pari a quello del Sudafrica. A tutto ciò si aggiungono le dichiarazioni dell’organismo nazionale anti corruzione secondo il quale nel 2012 sarebbero usciti illegalmente dal paese 1.000 miliardi di dollari (FT, “China capital flows: tides are turning”, 10/2/2013).
La crescente diseguaglianza è oggi problema globale e la Rpc è in buona compagnia. Ma un paese governato da un Partito sedicente comunista non può prendere sotto gamba la faccenda. Le barche più piccole faticano a navigare nelle acque della seconda economia mondiale ma, piuttosto che affogare, i naviganti si ribellano mettendo a repentaglio l’“armonia” sociale. La frattura più grave è ancora oggi quella fra città e campagna (secondo l’ufficio nazionale di statistica cinese i redditi medi urbani arrivano a 4.000 mila dollari l’anno e quelli rurali non superano i 1.300) ma all’interno delle aree metropolitane si approfondisce l’abisso tra i residenti e i migranti, la cui condizione è aggravata da uno status di residenza, il cosiddetto hukou, che li priva dei diritti garantiti agli altri cittadini.
La nuova leadership, installata al potere nel novembre scorso dal 18esimo congresso del Pcc e guidata da Xi Jinping, ha deciso di affrontare la questione e il 5 febbraio scorso il governo ha annunciato un programma in 35 punti, vasto e ambizioso nelle intenzioni quanto scarso in dettagli concreti e tempi di realizzazione. D’altra parte, avverte il Consiglio di stato, realizzarlo “è un compito estremamente arduo e complesso di ingegneria sistemica” e di sicuro “non si può attuare da un giorno all’altro”. Pare che il piano fosse in discussione da almeno due anni ma le forti opposizioni degli “interessi costituiti” ne hanno finora ostacolato il percorso. La decisione di renderlo noto fa dunque già di per sé capire che la Cina è entrata in una nuova fase mentre la panoplia delle soluzioni proposte apre un varco sul come ci sta entrando e cosa può riservare il futuro.
Con il suo programma, il governo conta di ridurre da 128 a 48 milioni entro il 2015 il numero delle persone che ancora oggi vivono sotto il livello di povertà (366 dollari l’anno). Ma per capire le intenzioni dei vertici, sono altri i punti interessanti. Come quello mirato alle imprese statali, ricche, potenti e dotate di forti agganci coi big di Partito, che pagano salari molto più alti della media ai dipendenti e remunerano i dirigenti con stipendi d’oro. A loro si chiede che entro il 2015 paghino un’addizionale del 5% sull’insieme dei profitti, oltre a quelli che già versano allo stato. Per rendersi conto dell’entità delle somme in ballo, nel 2011 le compagnie di proprietà dello stato centrale hanno intascato utili netti pari a 160 miliardi di dollari, ma hanno sborsato in dividendi solo 10 miliardi. (Peterson Institute for International Economics citato in Wall Street Journal, “China Tackles Income Divide”, 5/2/2013 ). Il denaro così ricavato contribuirà a finanziare le spese supplementari per pensioni, sanità, istruzione, case popolari, premessa necessaria per una riforma del sistema di residenza che dovrebbe porre fine alla segregazione sociale dei migranti nelle città. L’altro corno di questa manovra è la promessa di mettere mano al sistema di proprietà della terra, nel senso di assicurare maggiori garanzie legali ai contadini che vogliono vendere i diritti d’uso dei terreni (in Cina non esiste proprietà privata della terra). L’impegno dichiarato è di metterli al riparo dalle speculazioni e dalle confische illegali dei governi locali ma, unita alla promessa di una più facile concessione della residenza urbana, la possibilità di vendere a buon prezzo i terreni spingerà a un ulteriore esodo dalle campagne alle città, secondo i piani di imponente urbanizzazione previsti dal governo (180 milioni di nuovi migranti entro il 2030). Il combinato è parte integrante del programma più vasto di innalzamento dei redditi bassi che dovrebbe produrre l’aumento dei consumi interni e il sospirato spostamento dell’asse di sviluppo economico dalle esportazioni alla domanda interna. Collegato al processo di ulteriore trasmigrazione dei piccoli proprietari è poi l’impegno del governo a industrializzare la produzione agricola. (Xinhua, “China to reform income distribution”, 6/2/2013).
Fa il suo esordio in una proposta di governo anche la liberalizzazione dei tassi bancari, finora troppo bassi e poco remunerativi dei depositi, tanto da costituire un vero drenaggio di risorse dai risparmiatori alle banche e ai loro investitori “amici”.
Non si parla di riforma delle aliquote fiscali per i ricconi, ma entrano in agenda, rinviate però a data da destinarsi, sia l’imposta di successione sia le tasse sulle proprietà immobiliari. Per queste ultime vi sarà un incremento “sperimentale” e “graduale”. Finora, i tentativi di alcune municipalità di tassare seriamente le case hanno provocato rivolte e un crollo minacciato del mercato immobiliare.
Il Consiglio di stato annuncia anche regole più strette affinché i funzionari pubblici rendano trasparenti le entrate e le proprietà proprie e dei familiari. Ma non è chiaro se l’outing sarà pubblico, come chiesto dall’opinione pubblica, o riservato alle stanze segrete. Solo nel primo caso si potrebbe parlare di una vera svolta.
Nel complesso, un approccio “sistemico” che preannuncia la ripresa alla grande di una fase di riforme di tipo denghista (il Deng degli anni ’90), spregiudicate, pragmatiche, del tutto de-ideologizzate. Finito il populismo compassionevole dei precedenti capi, messa a tacere la sinistra con la caduta ingloriosa di Bo Xilai, il capo del Pcc di Chongqing, è il momento dei tecnocrati “con caratteristiche cinesi”. Libereranno l’economia da tutti i lacciuoli che ne inceppano lo “sviluppo” e soprattutto, così sperano i nuovi capi, metteranno a tacere quella fastidiosa voglia di politica che ogni tanto si impossessa anche dei cinesi.