A dieci anni dal lancio della Campagna del millennio, finalmente entra in discussione la tassa sulle transazioni finanziarie. Ma le risorse latitano
La scorsa settimana a New York è calato il sipario sul vertice delle Nazioni unite sugli obiettivi di sviluppo del millennio. A dieci anni dalla dichiarazione del millennio che ha fissato gli obiettivi nella lotta alla povertà sul pianeta da raggiungere entro il 2015, in vista del traguardo il ritardo accumulato è notevole e chiaramente si va verso l’ennesimo fallimento. A nulla è servito nel 2000 abbassare le ambizioni, accontentandosi soltanto di un dimezzamento della povertà estrema e seguendo un approccio pragmatico per la concessione ai poveri dell’accesso ai servizi essenziali. Di fatto dimenticando quanto richiesto al summit dello sviluppo sociale di Copenaghen del 1995, quando furono sottoscritte raccomandazioni centrate sulla giustizia sociale e la redistribuzione.
Ma dietro il dramma dell’ennesimo insuccesso del multilateralismo – un leit motiv dell’ultimo decennio, sia che si tratti delle Nazioni unite o della Wto – il vertice e i toni utilizzati hanno marcato un forte segnale di discontinuità con il passato, nel meglio e nel peggio allo stesso tempo.
E’ chiaro oramai a tutti che gli aiuti allo sviluppo possono ben poco di fronte ai sempre più incalzanti problemi globali, dalla lotta alla povertà a quella contro i cambiamenti climatici, senza parlare degli impatti della crisi economica e sociale globale che si protrarranno a lungo. Una goccia nel mare, spesso anche inefficace e se non addirittura contro-produttiva nel lungo termine, dal momento che genera una dipendenza dall’estero nei paesi più poveri, a tutto vantaggio di poche elite locali. A New York l’ennesimo annuncio di una nuova iniziativa conto la mortalità infantile ed a favore della salute delle madri e delle donne – che ricicla in parte altri impegni già presi in passato e non mantenuti dai governi dei paesi ricchi – ormai ha ben poca credibilità, ed anche le grandi agenzie di sviluppo non lo nascondono più. Insomma, volenti o nolenti si volta pagina e bisogna guardare nel mare più grande dei flussi finanziari internazionali Nord-Sud per trovare risposte adeguate, nonché nella mobilitazione di risorse locali anche negli stati più poveri tramite tassazioni nazionali ed internazionali.
Su questo la Francia di Sarkozy e la Spagna di Zapatero hanno trovato la forza per rilanciare ancora una volta la strada della tassazione delle transazioni finanziarie internazionali, per racimolare nuove risorse sui mercati speculativi e non nei budget nazionali dei paesi ricchi, oggi sotto stress, per finanziare la lotta contro le emergenze globali. Sfortunatamente su questo l’Europa rimane divisa, così come la comunità internazionale, sebbene la partita sia pur sempre aperta, così come gli eccessi perversi dei mercati finanziari ben difficilmente finiranno a breve. Per altro con conseguenze nefaste per i paesi più poveri, se si pensa alla speculazione finanziaria sulle soft commodity.
Mentre questa tendenza complessiva a guardare oltre l’aiuto allo sviluppo può avere un grosso potenziale nell’affrontare la mancanza di coerenza tra politiche commerciali, economiche e finanziarie da un lato e politiche di cooperazione allo sviluppo dall’altro – insomma la madre di tutte le battaglie per promuovere un’autentica cooperazione internazionale che permetta l’emancipazione dei paesi più poveri – in realtà apre il fianco all’affermarsi di un nuovo mantra che, nel solco della tradizione liberista che ci ha portato sull’orlo del baratro con l’ultima Grande recessione, vede il settore privato ed il sostegno pubblico a questo come il principale attore dello sviluppo economico e sociale dei paesi più poveri.
Lo stesso presidente Obama, dopo il suo consueto richiamo alla responsabilità da parte di tutti, è stato chiaro: i poveri si aiutano soltanto con la chiusura del round commerciale di Doha alla Wto, con la promozione di nuovi investimenti diretti esteri privati e con l’aiuto anche dei fondi privati nel promuovere progetti ed azioni di sviluppo per l’accesso a servizi essenziali, quali salute ed istruzione. Insomma, i governi ricchi non ammettono che gli obiettivi non si raggiungeranno perché mancano le risorse, ma di fatto alzano le mani e in maniera pilatesca invitano i fondi privati a guidare l’azione, senza nemmeno fissare condizioni sul loro operato.
Una narrativa pericolosa che di fatto sancisce una “privatizzazione dello sviluppo”, se non qualcosa di ancora peggiore. Se si guarda come sta cambiando in questi anni il portfolio delle principali banche multilaterali di sviluppo e di diversi attori finanziari bilaterali a controllo pubblico, ci si accorge che siamo in presenza di una clamorosa “finanziarizzazione” delle politiche di sviluppo: ossia, sempre più il sostegno pubblico non solo va a vantaggio del settore privato – quello che è stato definito “corporate welfare” – ma viene incanalato tramite intermediari finanziari privati, inclusi i famigerati fondi di private equity, che facendo operazioni sui mercati finanziari aumentano gli investimenti nei paesi più poveri. Poco conta se questi fondi – talvolta definiti “locuste” del capitalismo – seguano una logica di super-profitto ad ogni costo ed operino in totale oscurità e mancanza di controllo pubblico.
Il G20 del prossimo novembre in Corea si occuperà per la prima volta di politiche di sviluppo, e probabilmente il nuovo mantra sarà discusso ed ulteriormente rafforzato. Se si voleva la coerenza delle politiche, in questo modo la si avrà, senza dubbio: i mercati finanziari medieranno anche “gli aiuti” per i poveri, e tutti gli altri, settore non-governativo compreso, dovranno sottostare al loro ricatto. Meglio agire ora prima della prossima crisi finanziaria della povertà. Andiamo oltre il paradigma degli aiuti, ma regolamentiamo e ingabbiamo in primis la finanza globale.