Il governo Meloni ha creato il “Ministero dell’Istruzione e del Merito” mentre Papa Francesco ci spiega che la meritocrazia “sta diventando una legittimazione etica della disuguaglianza”. Ma che cos’è davvero il merito nella nostra società?
Il recente cambiamento del nome del Ministero dell’Istruzione in “Ministero dell’Istruzione e del Merito” ha riportato in primo piano, nel nostro paese, la discussione sul merito. Spiccano, al riguardo, le parole di Papa Francesco che afferma “un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata ‘meritocrazia’. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella il ‘merito’, ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e la perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della disuguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla disuguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono. Il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi”. Un conto, dunque, secondo il Papa, è la meritocrazia e un altro il merito, considerato una bella parola. Ma possiamo, davvero, criticare la meritocrazia e salvare il merito? E se sì, come?
Meritocrazia e merito sono termini scivolosi che si prestano a una pluralità di significati. Occorre, dunque, innanzitutto, chiarire il significato che si utilizza. Caratterizzerei la meritocrazia sulla base degli elementi seguenti. La gara competitiva è il meccanismo dirimente per assegnare l’accesso alle posizioni di vantaggio. Il criterio per vincere la gara è il merito. Il merito legittima altresì le disuguaglianze nelle remunerazioni che conseguono all’andamento della gara. Nella versione sostanziale, la meritocrazia aggiunge la richiesta di un livellamento delle condizioni di accesso alla gara: tutti devono avere la stessa possibilità di sviluppo dei meriti a prescindere dalla famiglia d’origine. L’accesso all’istruzione è tipicamente ritenuto lo strumento principale. Il merito, nella prospettiva meritocratica, concerne, a sua volta, una proprietà del singolo, ossia, le abilità (siano esse cognitive o non cognitive) e lo sforzo erogato nel loro sviluppo, e/o le prestazioni che abilità e sforzo possono produrre.
La critica di Papa Francesco mette in discussione sia la nozione di merito sia il legame fra merito e remunerazioni presenti nella meritocrazia. Le abilità, anziché merito del singolo, sono un dono e un fattore casuale, come un dono, non può giustificare vantaggi e svantaggi cumulativi. Peraltro, pure lo sforzo dipende in parte dalla lotteria naturale (avere buone abilità offre soddisfazioni che ci motivano a svilupparle al meglio) e da quella sociale (la famiglia di origine e il contesto in cui si cresce).
E non è tutto. La valutazione stessa dei meriti è casuale per i singoli, dipendendo dagli altri. Potremmo avere un’abilità eccezionale a intrecciare cestini, ma se abbiamo la sfortuna che nessuno l’apprezza nulla riceviamo. Similmente, dipendono dagli altri anche le prestazioni che offriamo – la produzione è sempre un lavoro di squadra -. Dunque, conta la fortuna nei nostri incontri (matching) con gli altri.
Rilevare la natura sociale del merito porta con sé un’altra implicazione importante. I meriti dipendono dalle regole del gioco. La meritocrazia, però, non si occupa della natura di tali regole. Afferma la necessità di un gioco competivo, ma i mercati non sono luoghi naturali e le regole stesse della concorrenza possono essere molto molto diverse. Le regole del “nuovo” capitalismo richiamato da Papa Francesco, e i meriti che sanciscono, sono profondamente carenti.
Alla critica appena presentata di Papa Francesco alla meritocrazia potrebbero aggiungersi altre critiche. La gara contempla, inevitabilmente, vincitori e vinti. Mentre può ritenersi appropriata per posizioni che siano inevitabilmente scarse, la gara appare insensata quando l’obiettivo sia garantire a tutti le condizioni fondamentali alla vita umana. In questo spazio non vogliamo vincitori e vinti. Vogliamo uguaglianza. Nel caso dell’istruzione, non vogliamo un’istruzione impartita con l’obiettivo di selezionare i migliori (anche una volta neutralizzata l’influenza dell’origine sociale) e ciò è tanto più vero per l’istruzione obbligatoria. Compito dell’istruzione obbligatoria è ricercare una base comune di istruzione.
Inoltre, l’intento presente nella meritocrazia sostanziale di livellare le condizioni iniziali rischia di essere un miraggio. Non solo, è difficile assicurare il pari accesso all’istruzione se non si interviene sulle condizioni più complessive di vita in cui i giovani crescono. La meritocrazia pone anche una tensione inevitabile fra la legittimazione delle disuguaglianze operata dalla gara competitiva e la richiesta del livellamento delle condizioni di accesso a tale gara. Più precisamente, livellare richiede di tassare le remunerazioni che si sono acquisite sulla base del merito. Il che ingenera una tensione fra il diritto a ciò che si ha acquisito e il dovere del livellamento. Vincere le gare potrebbe, altresì, generare un senso di superiorità nei confronti di chi ha perso. Perché chi ha vinto il gioco meritocratico dovrebbe pagare per la scuola di bambini i cui genitori sono perdenti? Non a caso, i paesi dove la cultura meritocratica è più radicata non si contraddistinguono per il livellamento nelle condizioni iniziali.
Infine, l’uso della meritocrazia per giustificare le disuguaglianze attuali è una mistificazione della meritocrazia stessa. Oggi, molti mercati neppure permettono gare essendo dominati da vincitori che prendono sostanzialmente quasi tutto.
Se la meritocrazia ha tutti questi limiti, resta uno spazio per ‘la bella parola’ del merito? Prima facie, le obiezioni svolte sembrano investire il concetto stesso di merito. Anche laddove l’obiettivo sia ricercare un livello di base di istruzione per tutti e tutte, non tutti meritano, però, gli stessi voti. E neppure tutti meritiamo di vincere Wimbledon. Ancora, chi si impegna di più, chi fornisce un miglior prodotto o realizza un’innovazione scientifica che contribuisce al benessere dell’umanità, chi garantisce una maggiore cura dell’ambiente o una maggiore democrazia nella gestione della propria azienda non ha più meriti di altri che non seguono tali comportamenti? Se abolissimo la parola merito non rischieremmo di ignorare tutti questi contributi? Si consideri, poi, un processo di selezione dove vince il candidato meno bravo che però è raccomandato. Il criterio del merito permette la funzione critica di mettere in luce l’ingiustizia prodotta. E, comunque, il merito è fortemente radicato nel senso comune.
Come ricordavo all’inizio, meritocrazia e merito sono termini scivolosi e la riflessione pubblica resta aperta e deve continuare. Darei due risposte.
La prima è che, laddove sono in gioco abilità e sforzo, cercherei il più possibile di spostare l’attenzione dal merito della persona al merito della prestazione offerta, nel pieno riconoscimento del ruolo della valutazione sociale. Certo, è una questione di pesi: le prestazioni sono sempre offerte da persone. Spostare l’enfasi sulle prestazioni contiene, tuttavia, il rischio di connotati moralistici come se chi risulta più bravo fosse anche superiore sotto un profilo morale e comunque il giudizio su un unico merito non può illuminare di merito la persona intera (i meriti tendono a essere monodimensionali o, almeno, largamente parziali). Mi preoccupa, inoltre, il rischio che i più bravi sviluppino un senso di arrogante superiorità nei confronti di chi risulta meno bravo. Una possibilità è anche quella di privilegiare, laddove pertinente, il riferimento alle competenze nello svolgere determinate prestazioni. Ad esempio, uno studente che svolge un compito di matematica meglio di un altro dimostra una maggiore competenza. Se dessimo a tutti lo stesso voto non riconosceremmo queste differenze di competenze.
La seconda, e devo ringraziare per questa risposta una bella discussione nel Forum Disuguaglianze e Diversità, è che attribuirei al merito un significato ulteriore non contemplato dalla meritocrazia. È meritevole chi si comporta secondo criteri di giustizia sociale sociale e ambientale, andando oltre a quanto richieste dalle regole vigenti.
Infine, due ultime precisazioni. Da un lato, riconoscere l’elemento casuale nel merito/nelle competenze non implica in alcun modo sottovalutare il valore dell’impegno a fare al meglio e, con esso, i valori della libertà e della responsabilità. Semplicemente, il focus è sulla qualità delle prestazioni che si offrono, piuttosto che sulla gerarchia fra individui. Dall’altro lato, mettere in discussione la meritocrazia non significa negare che, nei mercati, chi vince riceva di più. Semplicemente, in contesti come quelli di mercato, dove molto dipende dal caso, lascerei da parte l’invocazione di meriti personali, limitando a sostenere che chi vince, una volta l’economia sia governata da principi di giustizia e a tutti siano assicurate le condizioni fondamentali per vivere, ha un titolo valido a quanto riceve.
Su questi temi Elena Granaglia ha appena pubblicato il volume “Uguaglianza di opportunità. Si, ma quale?”, Laterza, 2022