La consulenza del ministero dell’Economia alla società statunitense McKinsey è gravida di incongruenze e potenziali conflitti d’interessi. Le spiegazioni finora fornite dal ministero non minimizzano, semmai aggravano le preoccupazioni. Visto il curriculum del presidente del Consiglio e il problema annoso delle “revolving doors” sarebbe il caso che oltre al ministro Franco, fosse lo stesso Draghi […]
La cronaca di questi giorni sulla vicenda della consulenza del ministero dell’Economia e finanze alla McKinsey costituisce una sfida con pochi precedenti per il Parlamento. Il presidente del Consiglio, a mio avviso giustamente, lo ha indicato come la sede privilegiata in cui spiegare e rispondere del suo operato (“strict accountability”). Proprio perché del governo presieduto da Mario Draghi il paese non può fare a meno, senza gravi danni per la sua salute e la sua vocazione europeista, ormai maggioritaria, di cui egli ed esso costituiscono il suggello, diventa indispensabile chiamarli a rispondere in quella sede della mancanza di trasparenza, gravi incongruenze e potenziali conflitti d’interessi nella consulenza affidata alla ditta statunitense McKinsey & Co.
Le spiegazioni finora fornite dal MEF semmai aggravano le preoccupazioni, minimizzandone il contenuto e vantando un costo così ridotto da richiedere un controllo di potenziali conflitti d’interesse a valle dei progetti del PNRR trattati. Inoltre, il presidente del Consiglio, già direttore generale del Tesoro, governatore della Banca d’Italia e, successivamente, vice presidente di Goldman Sachs, dovrà tenere conto della delicatezza della sua posizione in merito all’opportuno dibattito in corso anche in Italia, sull’alternarsi di responsabilità e impegni privatistici (“revolving doors”).
Sulla vicenda McKinsey si sono levate altre voci critiche. Non potrebbe essere un’occasione per chiamare lo stesso Draghi – non soltanto il suo ministro dell’Economia – a rispondere del suo operato?
Una corretta funzione di controllo da parte del Parlamento in quanto istituzione può costituire elemento di riscatto per la funzione politica indispensabile in democrazia.
Tutta questa vicenda, di ovvia portata nazionale, s’intreccia con la crisi in atto del centro-sinistra partiticamente organizzato nelle sue varie componenti. Non si potrebbe verificare la possibilità di una convergenza squisitamente parlamentare di componenti altrimenti, oltre che separate, rinchuse all’interno della propria bolla partitica sempre più claudicante? Ha ragione Fabio Mussi quando afferma (cfr. “Il Manifesto”, 7 marzo) che la sinistra non si riforma se non attraverso un iniziativa esterna, ma ci saranno pure dei rari nantes che intendono rispondere all’allarme che Nicola Zingaretti ha avuto il merito di lanciare?