Euro tunnel/5 Libertà dei capitali e politiche neoliberali: una uscita dall’euro e una restituzione della sovranità monetaria senza la moneta unica non cambierebbe nulla
L’euro è una moneta sbagliata, nel senso che, alla luce della teoria sulle aree valutarie ottimali, in assenza di un meccanismo fiscale di compensazione (gli Stati Uniti d’Europa per dirla con uno slogan) unisce economie troppo diverse e con scarsa mobilità interna del lavoro. Una volta eliminata la valvola di sfogo del cambio, tutto il peso dell’aggiustamento di competitività ricade sui costi (e quindi sui salari), generando pressioni deflazioniste (con i rischi annessi).
La storia dell’euro per i paesi della periferia europea non è certo stata un successo. Nella maggior parte dei paesi della periferia (Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia), il divario persistente di competitività è stato compensato da persistenti flussi di capitale privato, che hanno sostenuto la crescita con bolle speculative, per poi implodere e lasciare i paesi in piena crisi. Nel caso dell’Italia, l’ultima decade è senz’altro associata a una mancata crescita della produttività, che ha bloccato il paese per poi lasciarlo impoverito quando è scesa la scure della crisi e dell’austerità imposta da Bruxelles.
Nel caso del Belpaese, tuttavia, il meccanismo non è chiaro: da un lato, se stiamo ai dati Istat il prodotto per addetto si blocca nel 2000, mentre la rivalutazione e rientro nello Sme è del 1996 (e 1999 e 2002 sono le due date cruciali dell’euro). Il duro colpo subito dall’export è senz’altro una parte della storia, l’Italia infatti passa da un cospicuo saldo attivo delle partite correnti nel 1996 a una progressivo assottigliamento che termina in saldo negativo nel 2002 (dati Istat). Tuttavia l’importanza dell’export nella crescita della produttività aggregata non deve essere esagerata: l’Italia è infatti vittima di un processo di riduzione della quota del manifatturiero che viene da molto lontano. Se usiamo i dati Ocse sulla struttura economica (Oecd Stan), la quota del manifatturiero (rispetto al totale di agricoltura manifattura e servizi riportato dalla stessa fonte) è in tendenza decrescente (senza rimbalzi) dai circa 27 punti dell’81 fino ai 16 punti del 2011, compensati interamente dalla crescita dei «servizi professionali», cioè la somma di professioni e servizi all’impresa (ricerca, marketing ecc) – tutti settori non aperti al commercio internazionale – che passano da 10 a 22 punti.
Una spiegazione più classica è l’assenza di investimenti. Infatti, gli investimenti netti (differenza tra investimenti lordi e ammortamenti, da fonte Istat) si stabilizzano proprio nel periodo 2000-2007 attorno al 6% del Pil. In realtà, la prima stabilizzazione si era osservata negli anni ’80 (circa due punti di Pil in più), ma in quel periodo la domanda pubblica sostiene il processo di crescita, a seguito di quello che De Cecco ha chiamato «keynesismo criminale»: il deficit di bilancio era in media al 10.8% del Pil, anche se il deficit primario era circa 7 punti più basso. In effetti la spesa per interessi cresce perché l’Italia fa scuola con l’indipendenza della Banca Centrale (il famoso divorzio). Detto in altre parole, non possiamo spiegare la crisi dei paesi della periferia se non guardiamo da un lato ai capitali (la loro possibilità di drogare un Paese o di svuotarlo) e dall’altra a politiche ben precise che questi squilibri hanno introdotto.
Tutti questi fattori precedono l’euro, che naturalmente è stato uno strumento neoliberale, ma uno strumento addizionale. In effetti, mentre non si conosce nella storia il caso di un paese sovrano con monete differenti all’interno, di certo abbondano i casi in cui i capitali non sono perfettamente mobili e l’autorità politica può (e vuole) alterare le decisioni private d’investimento. È legittimo chiedersi come una semplice restituzione della sovranità monetaria possa determinare un corso alternativo di politica economica: l’attuale gruppo dirigente dei Paesi della periferia è lo stesso che ha prodotto e sostenuto il dominio neoliberale. Il consenso alternativo, al di là di frange della sinistra radicale, è attualmente formato da una galassia eterogenea, con una componente preponderante di forze di destra e in alcuni casi addirittura antidemocratiche. Come rimarca Emiliano Brancaccio, un’uscita dell’euro da destra non sarebbe meno deleteria. Sebbene non scevro di elementi di velleitarismo, l’europeismo di sinistra sposta il dibattito su categorie classiche al posto del vuoto linguaggio politico nostrano a base di sigle. Per esempio un barlume di politica industriale in Europa esiste e sta dentro Europa 2020, dove si parla sia di divergenze regionali che di innovazione tecnologica. Non è molto, ma infinitamente maggiore di zero.