Tutte le ombre del Piano regionale di sviluppo proposto dal neogovernatore Roberto Maroni per la Lombardia. Un piano che costringe ai margini dell’Europa l’economia lombarda
Maroni ha proposto il suo piano regionale di sviluppo (Prs). I suoi assi portanti sono liberismo, comunitarismo, leghismo e centralità dell’impresa. Ma il quadro macroeconomico della Lombardia, soprattutto se comparato a quello europeo, è sufficientemente esplicativo dei vincoli di struttura che la Regione dovrebbe affrontare. Il programma della Giunta Maroni delinea delle policy che costringe ai margini dell’Europa l’economia lombarda.
Sono tre gli orizzonti della politica economica delineati da Maroni nel Prs. Più precisamente:
1) Ridurre la pressione fiscale al fine di sostenere l’economia e l’occupazione locale; mantenere il 75% del gettito tributario sul territorio lombardo; introdurre delle agevolazioni/esenzioni dall’Irap, meglio ancora azzerandola o predisponendo una sua moratoria per un periodo di 3 anni, nell’idea di costituire una no tax area regionale;
2) Sviluppare il capitale umano e l’inclusione sociale per favorire l’innovazione tecnologica e la competitività delle imprese, la qualità ambientale e la valorizzazione del territorio; rafforzamento del ruolo delle autonomie locali e della pubblica amministrazione modificando (non c’è scritto “riformando”) le forme e i modi dell’erogazione dei servizi pubblici;
3) Creare una macroregione del Nord dotata di un’ampia autonomia e maggiori competenze, alla quale dove corrispondere una adeguata dotazione finanziaria proveniente da tributi ed entrate regionali, e dalla partecipazione diretta della Regione al gettito di tributi erariali riferibili al proprio territorio.
Una politica che mal si concilia con le sfide che attendono la manifattura europea, che nel corso degli anni, in Italia, non ha dato una gran prova di efficacia. L’illusione ripresa dal Prs è quella di risolvere nel presunto contesto della “macroregione” la vocazione europea e, perché no, mediterranea della Lombardia. Qui si scopre una vocazione assistenziale: far convergere tutti i fondi europei di un territorio più vasto non per produrre valore aggiunto e specializzazione, ma per ripianare le esposizioni sulle grandi opere mai completate. La vocazione industriale e manifatturiera, la riconversione più o meno ecologica sono sempre fuori portata.
Un punto rilevante del Prs, in ragione del tasso di disoccupazione reale della Lombardia che si aggira attorno al 18%, sono le politiche del lavoro, che la Regione si ostina a chiamare politiche del mercato del lavoro. A parte il fatto che occorre ancora offrire una spiegazione plausibile sul come la contrattazione aziendale possa favorire la produttività e la crescita del reddito, la Regione Lombardia vede il problema del lavoro sempre come un problema di qualità dell’offerta, assegnando al mercato la definizione del target della domanda. In realtà, soprattutto in Lombardia, abbiamo un problema (drammatico) legato all’alto profilo formativo dei giovani che la domanda delle imprese non soddisfa. Una domanda con profili che assomiglia sempre di più alla domanda delle imprese del sud est asiatico.
Le formule a buon mercato del tipo “federalismo solidale”, consolidare la via alta dello sviluppo, sono slogan inutili e, in alcuni casi, sbagliati. La barzelletta del federalismo solidale è poi incostituzionale, perché il carico tributario è individuale e fondato sulla capacità contributiva.
La sinistra e le forze sociali della Lombardia devono affrontare una sfida inedita, e di portata storica. Non basta dire “sono di sinistra”. La sinistra si misura con i grandi temi della storia, con dei progetti. Da quando abbiamo perso i progetti, siamo a rimorchio dell’etica. Non è sbagliato avere un’etica, ma un progetto di cambiamento presuppone qualcosa di più.