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Lo spezzatino

La progressiva liquidazione del sistema della grande impresa italiana, con la chiusura di alcuni gruppi e il ridimensionamento di altri, si arricchisce di un nuovo capitolo, con gli ultimi sviluppi della vicenda Fiat

La progressiva liquidazione del sistema della grande impresa italiana, con la chiusura di alcuni gruppi, il ridimensionamento di altri, l’acquisizione infine di gran parte di quelli residui da parte del capitale straniero, senza che almeno quello nazionale riesca a impostare una qualche dignitosa e parallela risposta con acquisizioni nei paesi esteri, appare ormai quasi giunta al suo stadio finale. Siamo arrivati al punto che quando qualche impresa nostrana (ma sono sempre meno) ci prova, viene pesantemente ripresa, come mostra il recente caso Fincantieri-STX, affare i cui risvolti finali temiamo si riveleranno per noi come molto negativi.

Il libro che il professor Giuseppe Berta ha pubblicato di recente sul tema della scomparsa delle nostre grandi strutture (Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, Il Mulino, 2016) sembra apportare una parola definitiva in proposito. Possiamo solo sperare con l’autore che le imprese di minori dimensioni riescano ancora a tenere la rotta, in un quadro mondiale che si fa per noi sempre più complicato.

Questo processo di liquidazione della grande impresa si è svolto, come è noto, nella sostanziale indifferenza delle classi dirigenti nazionali a livello politico, economico e finanziario; esse hanno avuto un peraltro squallido sussulto di lesa maestà soltanto quando di recente sono stati in qualche modo minacciati gli interessi del Cavaliere.

In tale quadro, è in queste settimane venuto di nuovo alla ribalta il caso della FCA, gruppo peraltro già sostanzialmente e definitivamente fuggito, tra gli applausi di molti politici, verso altri lidi. Si tratta oggi di un approfondimento, per così dire di un secondo stadio, nel suo processo di allontanamento dal nostro paese.

Si è parlato dunque qualche settimana fa di un interesse di alcune imprese cinesi verso il gruppo, cui è seguita anche la notizia di una palese volontà da parte della famiglia Agnelli, del resto sempre più lontana da una qualche attenzione verso l’Italia, di sbarazzarsi delle azioni dello stesso gruppo, magari vendendolo anche a pezzettini ed eventualmente anche collocandone in borsa qualche residuo.

La notizia ci fornisce l’occasione per cercare di fare il punto sulla situazione dell’azienda, nell’ambito delle profonde trasformazioni che stanno toccando il settore, trasformazioni che vedono in prospettiva la FCA sempre più emarginata.

Le novità in atto nel settore

Intanto a livello mondiale va accelerandosi il passaggio alla propulsione elettrica, o almeno ibrida, delle vetture, mentre appare sempre più in crisi quella diesel – minata dai recenti scandali e dai problemi di inquinamento- e in prospettiva anche quella a benzina; parallelamente, anche se forse con qualche decalage temporale, va avanti la tecnologia relativa alla guida automatica.

Certo, non bisogna sottovalutare le difficoltà che ancora si frappongono al pieno successo di tali novità, né la gradualità del processo, ma la loro marcia appare inesorabile. Intanto si fanno pure avanti le tecnologie a idrogeno, anche in collegamento a quelle elettriche, nonché le innovazioni legate al cosiddetto “internet delle cose”.

Vanno anche segnalati, su di un altro piano, il sempre più ridotto interesse che le giovani generazioni, in particolare nei paesi occidentali, mostrano per l’acquisto di una vettura e, parallelamente, il forte sviluppo delle attività di car sharing, car pooling e forme analoghe di utilizzo non convenzionale dei mezzi.

Tali sviluppi, mentre sono spinti, tra l’altro, dalla crescita del ruolo della Cina nel settore, oltre che dalle crescenti preoccupazioni mondiali per l’inquinamento, comportano delle rilevanti conseguenze sul piano dell’assetto dell’industria, nonché sulla disponibilità di posti di lavoro e sulla caratteristiche dei processi di mobilità, all’interno in particolare delle grandi città e dei territori circostanti.

Intanto la Cina è ormai stabilmente e di gran lunga il principale mercato mondiale del settore, con vendite che sono ormai sostanzialmente pari a quelle di Stati Uniti e Unione Europea messi insieme. Le sue decisioni comportano ormai quindi conseguenze fondamentali su tutto il quadro.

Il paese asiatico sta progressivamente limitando lo spazio per le propulsioni tradizionali e spingendo invece per quelle elettriche, obbligando così in sostanza le principali case mondiali ad adeguarsi rapidamente.

L’inevitabile successo dell’auto elettrica comporterà pesanti conseguenze sull’industria componentistica e conseguentemente sull’occupazione. In effetti il nuovo tipo di vettura è più semplice di quello tradizionale e richiede molti meno componenti (grosso modo 7.000 parti contro le circa 30.000 dell’auto tradizionale), comportando così una molto più ridotta necessità di posti di lavoro.

L’ingresso in atto nel comparto di imprese nuove (Tesla e cinesi) e di società provenienti dall’economia digitale, che avanzano anche nel campo della vettura autonoma, ha come conseguenza poi una vita molto più difficile per i produttori tradizionali da una parte, mentre dall’altra ripropone pesanti conseguenze sull’occupazione.

In effetti l’avvento della vettura automatica, per le caratteristiche stesse di tale tecnologia, dovrebbe comportare a termine una pesante riduzione del livello di vendite, potendo le auto essere impiegate praticamente a tempo pieno nel corso della giornata, peraltro con modalità molto diverse da quelle attuali.

Tali sviluppi impongono parallelamente un forte ripensamento dei sistemi di mobilità urbana ed interurbana, anche se manca qui lo spazio per parlarne diffusamente.

Va anche considerata nel quadro, in prospettiva, la pratica scomparsa dell’attività degli autisti, ruolo che oggi occupa una fetta rilevante dei lavoratori a livello mondiale.

La situazione della Fiat

Va dato certamente a Marchionne il merito di avere nella sostanza salvato un gruppo che era ormai sull’orlo del fallimento e di essere riuscito a completare l’opera approfittando dell’occasione rappresentata dall’acquisto della Chrysler, azienda che è poi pure riuscito a rimettere in carreggiata.

Ovviamente tale operazione di risanamento poteva anche essere fatta con modalità differenti, evitando in particolare di aggredire con durezza il mondo del lavoro, peraltro con grande soddisfazione, a suo tempo, dei nostri governanti.

Comunque molte delle promesse del manager italo-svizzero non sono state tenute, da quella di grandi investimenti nel nostro paese, a quella del ritorno alla piena occupazione negli stabilimenti italiani (desta preoccupazione, oggi, in particolare la situazione di Pomigliano, Cassino, Mirafiori), a quella della produzione di 6-7 milioni di vetture all’anno ( oggi ne escono dalle linee poco più di 4 milioni) e di 400.000 unità per la sola Alfa Romeo (nel 2016 tra Alfa e Maserati si sono esitati in tutto 74.000 veicoli).

In ogni caso, la situazione economica del gruppo è migliorata sensibilmente e così anche quella finanziaria. Questo grazie, tra l’altro, alla crescita del redditivo mercato statunitense e ad una spinta del gruppo a migliorare il mix delle vetture vendute, con l’introduzione di modelli a più alti margini.

Ma oggi il quadro appare estremamente difficile.

Va intanto ricordato che sino a ieri i profitti per il gruppo sono arrivati prima dalla filiale brasiliana e, più di recente, almeno per il 90%, dalle vendite negli Stati Uniti. Ora il Brasile è in profonda crisi mentre le quote di mercato del gruppo crollano; nel mercato Usa si assiste intanto ad una riduzione delle vendite e ad una accresciuta concorrenza tra le case, ciò che comporterà quasi inevitabilmente una rilevante riduzione dei margini.

Intanto i modelli FCA non sono riusciti che molto limitatamente a penetrare sul mercato cinese e, più in generale, su quello asiatico, che oggi registra complessivamente il 55% delle vendite mondiali (circa un terzo del totale per quanto riguarda la sola Cina), mentre il rilancio dell’Alfa Romeo continua per molti versi ad essere problematico.

Va poi soprattutto considerato che mentre la FCA è comunque ancora oggi la compagnia meno redditiva e meno finanziariamente dotata di tutto il lotto, essa è anche quella che compie meno investimenti e stanzia meno risorse nella ricerca e sviluppo. In particolare e soprattutto il suo impegno nelle nuove tecnologie appare come il più debole di tutto il settore e può essere considerato come quasi irrilevante.

Così le scarse prospettive del gruppo che derivano da tale quadro non sembrano lasciare alcuna alternativa all’integrazione con un’altra casa del settore; vista poi la situazione, non si può apparentemente trattare che di una cessione al miglior offerente.

Tali conclusioni coincidono peraltro con la volontà della famiglia di liquidare la sua presenza nell’auto, così come, probabilmente, anche nell’altra grande sub-holding industriale, la CNH. Presumibilmente, ci si muoverà vendendo il tutto a pezzettini, dal momento che questa strada dovrebbe comportare il risultato di spuntare un prezzo complessivo maggiore.

Per quanto riguarda in particolare la FCA, si può ipotizzare che alla fine la Jeep-Chrysler vada a qualche casa americana e la Fiat ad un’azienda cinese. Per quanto riguarda Magneti Marelli e Comau, forse ci si dirige verso un’introduzione in Borsa che permetterebbe comunque alla famiglia di liberarsi progressivamente della partita, visto che la vendita diretta a qualche altra casa non sembra spuntare il prezzo desiderato dagli Agnelli; in relazione, infine, al possibile raggruppamento Alfa Romeo-Maserati l’incertezza sui possibili sbocchi regna sovrana.

Conclusioni

Appare inutile a questo punto sperare che qualche investitore privato italiano o il nostro operatore pubblico si facciano carico in prima persona di tutta la partita e compiano qualche miracolo. La situazione è quella che è. D’altro canto, bisogna cercare, comunque, da una parte di mantenere l’occupazione negli stabilimenti italiani, dall’altra di salvaguardare il rilevante patrimonio di competenze presente nel nostro paese per quanto riguarda più in generale le tecnologie del settore.

I segni del pericolo sono evidenti. Anche a parte le attività Fiat, il grande impianto Bosch di Bari presenta dei rilevanti ed immediati problemi di occupazione e ci si può preoccupare anche del futuro dell’importante centro di ricerca General Motors di Torino, che lavora con molta competenza sulle tecnologie diesel.

Alla fine, si può comunque immaginare di “salvare i mobili” con un intervento della Cassa Depositi e Prestiti, insieme a quello di qualche impresa estera, per mantenere sotto controllo nazionale, almeno parziale, la Magneti Marelli e la Comau, centri ricchi di know-how nel settore ed anche in altri campi più o meno contigui; il loro passaggio totale nelle mani del capitale straniero sarebbe per il nostro paese un evento catastrofico. Per quanto riguarda le attività auto specificamente Fiat, bisogna in qualche modo darsi da fare perché il possibile acquirente straniero, plausibilmente cinese, si impegni a mantenere l’attività e l’occupazione nel nostro paese.

In ogni caso non sembra in prospettiva esserci molto di cui rallegrarsi.

 

*Le riflessioni riportate sono in parte almeno anche derivanti da una partecipazione dell’autore ad un gruppo di lavoro sull’auto presso la Fondazione Sabattini di Bologna.