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L’industria dell’UE allo sbando

L’Unione europea vive una profonda crisi industriale: produzione al palo, ritardo tecnologico, dipendenza dall’estero, declino di interi settori. Tra frammentazione produttiva, mancanza di investimenti e subalternità geopolitica, manca una strategia per rilanciare innovazione, crescita e occupazione.

Le ragioni della crisi

Il grande storico francese Marc Bloch, ucciso dai nazisti nel 1944, fece in tempo prima di morire a scrivere un libro dal titolo La strana disfatta, in cui spiegava la subitanea e nettissima sconfitta dell’esercito francese nella Seconda guerra mondiale con il fatto che esso aveva utilizzato strategie militari e armamenti della Prima. Venendo ai nostri giorni e al tema del mio intervento – e per analogia con il testo di Bloch – voglio ricordare un altro volume. Questa volta si tratta di uno scritto di Wolfgang Münchau, tra l’altro uno dei migliori giornalisti economici del nostro continente, che ha pubblicato nel 2024 un libro dal titolo Kaputt, nel quale cerca di spiegare le ragioni dell’odierna crisi economica tedesca.

Molto in sintesi, l’autore attribuisce tale crisi al fatto che la Germania ha mantenuto l’apparato industriale del XX secolo e che, mentre il mondo negli ultimi decenni è molto cambiato, la Germania è rimasta indietro. Ora si può, a mio parere, estendere tali condivisibili conclusioni all’intero gruppo dei paesi che fanno parte dell’UE. Essi si trovano con gran parte del loro sistema industriale nei settori tradizionali tendenzialmente fuori gioco (acciaio, auto, chimica, meccanica leggera e pesante, etc.), mentre non riescono a inserirsi se non in posizioni del tutto marginali in quelli avanzati, dall’IA, alle tecnologie ambientali, alle attività che ruotano intorno ad internet, e così via. Va anche sottolineato il fatto che l’UE appare molto vulnerabile agli shock esterni, dipendendo dai servizi digitali Usa e dal monopolio delle terre rare cinesi.

Per quanto riguarda i settori tradizionali, anche in alcuni di quelli che sembrano andare meglio, dal lusso all’agroalimentare, non mancano in prospettiva i motivi di preoccupazione. Tra le cause delle difficoltà dell’economia dei paesi dell’Ue si possono poi ricordare, tra l’altro, l’evoluzione tecnologica che ha poco toccato il nostro continente in maniera attiva, la crisi dell’energia indotta dal suicidario blocco delle importazioni di petrolio e gas dalla Russia, la crescente, terribile, concorrenza cinese.

Il caso dell’auto

Per quanto riguarda le attività storiche, concentriamo la nostra attenzione, per ragioni di spazio, sul solo settore dell’auto, tra officine di montaggio finale e componentistica. Esso impiega secondo alcune stime circa 14 milioni di addetti tra diretti ed indiretti, mentre altre valutazioni fanno riferimento a 15 milioni di dipendenti soltanto per la Germania. In ogni caso il settore è ancora oggi il più importante dell’area dei paesi dell’UE.

L’industria europea aveva delle posizioni molto rilevanti nel settore. In particolare le case tedesche, da Mercedes a BMW ad Audi, possedevano una prodezza meccanica superiore e così esse potevano godere di larghi margini di redditività e di un controllo sicuro a livello mondiale della fascia superiore del mercato. Ma ora questa posizione di privilegio sta finendo. Oggi in una macchina elettrica circa il 75% del costo è dato dalla batteria e dal software, e per tutto il resto – carrozzeria, freni, pneumatici, sedili, volante, etc. – non resta che il 25%. Le prodezze meccaniche contano ormai sempre meno. Presumibilmente le marche teutoniche continueranno a vendere le loro vetture tradizionali: troveranno sempre degli appassionati, ma in quantità sempre minori.

Su un altro piano, da noi si discute ancora su “auto elettrica sì, auto elettrica no”, ma la partita a livello mondiale è sostanzialmente chiusa: l’auto elettrica ha vinto e il comparto è ormai dominato dalla Cina. E non basteranno le barriere doganali a fermarla. Le case dell’Unione Europea riusciranno a restare in piedi solo con il ricorso ad una “cinesizzazione” spinta, ma qualcuna di loro, presumibilmente, sarà destinata a soccombere. Si combatte ormai sul fronte delle vetture autonome e di una crescente connettività delle stesse, con un’appendice per le auto volanti. Ma il biglietto d’ingresso sul primo settore è stato da qualcuno stimato in 100 miliardi di dollari.

Mese dopo mese, si registrano nei paesi dell’UE annunci di chiusura di stabilimenti, in particolare di componentistica, nonché di riduzione nel numero degli addetti. Attualmente le fabbriche del continente europeo operano al 55% della loro capacità produttiva e la Alix Partners prevede che nei prossimi anni, in particolare rispetto a una domanda che langue e alla crescente concorrenza cinese, potrebbero chiudere nel continente sino a otto fabbriche del settore. La lotta per la supremazia nell’auto autonoma è limitata a cinesi e statunitensi, con i primi apparentemente con qualche lunghezza di vantaggio.

Intanto Stellantis, mentre promette investimenti per 13 miliardi di dollari negli Stati Uniti, riduce progressivamente in Italia i suoi volumi produttivi e il numero dei dipendenti; e al contempo fa finta di discutere con governo e sindacati sulle prospettive di crescita future, con gli interlocutori che stanno al gioco, forse in mancanza di alternative. D’altra parte, questo governo appare strutturalmente incapace di svolgere qualsiasi azione a difesa della presenza di importanti attività produttive, in questo come in altri settori (vedi il caso ex-Ilva) del nostro paese.

I settori nuovi e la politica industriale di Bruxelles

IA, robotica, tecnologie climatiche

Non va certo meglio per i paesi dell’UE sul fronte dell’alta tecnologia, dove con rarissime eccezioni (ad esempio l’aerospaziale) dominano ancora una volta, senza alcun problema, la Cina e gli Stati Uniti. Nel settore dell’IA gli Stati Uniti investono ormai ogni anno 300-400 miliardi di euro all’anno e la Cina “solo” molte decine, ma ottenendo praticamente gli stessi risultati del primo paese. Per altro verso, esisteva un’attività in cui la presenza di produttori dell’UE era storicamente molto importante, quella della robotica, ma le sue principali imprese sono state acquisite da capitali extraeuropei. Così, la tedesca Kuka è stata comprata dai cinesi, la svedese-svizzera ABB pochi giorni fa dai giapponesi, mentre la ex-Fiat Comau, a suo tempo, da parte di capitali Usa.

Incidentalmente, occorre notare che negli ultimi anni la corsa alla cessione allo straniero dei campioni industriali italiani residui prosegue indisturbata. Il nostro governo opera tranquillamente in questo senso. E ancora, se l’UE vuole combattere seriamente la crisi climatica – cosa di cui si può peraltro sempre più dubitare – deve rivolgersi necessariamente ai cinesi per ottenerne le tecnologie.

La politica industriale di Bruxelles

Sino a non molti anni fa, se a Bruxelles qualcuno osava anche solo pronunciare l’espressione “politica industriale”, i funzionari del palazzo mettevano subito mano alla pistola. Poi negli ultimi anni, di fronte all’evidenza, si è cominciato a varare dei piani per diversi settori avanzati. Ma i risultati ad oggi sono abbastanza miseri.

In tal senso, il cosiddetto “Chips Act” mirava a portare la quota di produzione mondiale dei chip nell’Unione dal 9-10% scarso al 20%: oggi siamo ancora intorno all’11% secondo le stime di Bruxelles, a nostro parere anche ottimistiche. Chi scrive pensa che non si riuscirà ad andare oltre e che anzi si potrebbe addirittura retrocedere di fronte alla forte avanzata cinese, ormai con oltre il 40% come quota di mercato mondiale, a quella degli Stati Uniti, nonché alla persistente presa di Taiwan e Corea del Sud sul settore. Le imprese europee non riescono in ogni caso a presentare prodotti avanzati e si accontentano di una poltrona di terza fila.

Inoltre, sempre a Bruxelles in queste settimane si discute di intervenire nel campo dell’IA, nel quale in effetti l’area dell’UE appare molto indietro, anche se con qualche relativo campione potenziale (vedi la francese Mistral). Ma ci si va orientando a stanziare all’uopo 1 miliardo di euro… Sottolineiamo anche, in termini più generali, che in quasi tutti i paesi dell’UE, mentre calano gli investimenti pubblici e privati, aumentano da tempo la povertà e le diseguaglianze e i governi dei vari paesi si impegnano da tempo a demolire progressivamente e in maniera zelante lo Stato sociale messo in piedi a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Cosa bisognerebbe, in astratto, fare

Di fronte alla situazione sopra descritta si potrebbe cercare di fare qualcosa. In proposito, invece di disperdere le scarse risorse in mille rivoli, queste potrebbero essere concentrate sui pochi settori in cui le imprese dell’UE hanno ancora qualcosa da dire, ad esempio l’aerospaziale, le turbine eoliche, alcuni comparti del software e così via. Ma chi porterà avanti i piani?

Sia lecito dubitare della capacità strategica e organizzativa dei protagonisti del sistema politico e finanziario del nostro continente: essi, anche per nascondere le loro incapacità di intervento di fronte a una situazione di crisi, si stanno concentrando sul settore delle armi e per far digerire la cosa solleticano un sentimento di paura nell’opinione pubblica del continente, facendo balenare un’improbabile minaccia di invasione russa. A livello poi di strategie geografiche, l’UE si va concentrando su di una servile sudditanza verso gli Stati Uniti, cercando parallelamente di ostacolare in molti modi le produzioni e gli investimenti cinesi. Ma si tratta di una scelta miope.

In effetti, utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto, il Fondo Monetario Internazionale ha stimato che il PIL della Cina si colloca ormai nel 2025 intorno al 133% di quello statunitense, e quello dei paesi del Sud del mondo complessivamente intorno al 60% di quello mondiale. Ma cercando di coprire le lacune e i difetti di comparazione tra Cina e Stati Uniti presenti in tali stime, ci si avvicina in realtà all’evidenza che il PIL cinese è ormai vicino al doppio di quello degli Stati Uniti e quello dei paesi del Sud non lontano dai due terzi di quello totale.

Conclusioni

I paesi dell’UE si trovano di fronte a gravi difficoltà; essi non riescono a delineare in nessun modo una strategia di uscita rispetto a questa situazione, se non quella, perdente, di investire nel settore militare. Chi scrive pensa – sperando ovviamente di sbagliarsi – che la crisi ben difficilmente sarà risolta e, quindi, che per il continente si prospetta un lento, progressivo processo di declino economico. Del resto, le civiltà nascono, si sviluppano, declinano e muoiono; di nuovo, chi scrive pensa che il nostro continente sia destinato a una progressiva irrilevanza a livello globale. Tuttavia, la Storia ci ha abituato a improvvisi revirement della scena. Chissà.

* Il testo qui riportato riprende i temi dell’intervento tenuto da Vincenzo Comito – economista di Sbilanciamoci!, già docente all’Università di Urbino e alla LUISS di Roma – lo scorso 10 ottobre 2025 al panel “Capitalismo, Stato e Europa”, nell’ambito della seconda edizione del “Festival dell’economia critica” organizzato dalla Fondazione Feltrinelli, con Sbilanciamoci! tra i partner dell’iniziativa, a Milano. Insieme a Vincenzo Comito, hanno preso parte al panel del 10 ottobre Lucio Baccaro (qui il testo del suo intervento), Francesco Saraceno e Annamaria Simonazzi, con l’introduzione e la moderazione di Lucrezia Fanti di Sbilanciamoci!.