Sull’emergenza legata all’epidemia di Covid-19 l’Eurogruppo sigla un pessimo compromesso politico, concede 500 miliardi di euro di interventi e nega gli eurobond. I paesi del Sud Europa ne escono indeboliti e non si affronta il nodo cruciale della sopravvivenza dell’Unione Europea come progetto politico.
Dopo tre giorni di trattive, i ministri delle Finanze dell’Unione Europea giungono a un compromesso sulle misure straordinarie da mettere in campo per fronteggiare le conseguenze economiche del coronavirus. Per i paesi del Sud Europa è un pessimo accordo che non risolve minimamente i problemi sul tavolo. Vincolati da affari interni, i leader europei sottovalutano completamente la portata della vera questione in gioco: la sopravvivenza stessa dell’Unione Europea come progetto politico.
Il documento finale dell’Eurogruppo prevede la possibilità di accedere a tre meccanismi di finanziamento e a un piano di rilancio per l’economia, tutto ancora da scrivere. Dei primi fanno parte il programma SURE (il sostegno alla cassa integrazione dei paesi membri), l’allargamento dei prestiti della Banca Europea per gli Investimenti (BEI) alle imprese, l’attivazione delle linee di credito del MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, concesso senza condizionalità ma solo per far fronte alle spese sanitarie. Strumenti che, almeno sulla carta, varrebbero 540 miliardi di euro, tra il 3 e l’4% del Pil dell’Unione, comunque un terzo delle risorse necessarie ad affrontare la crisi secondo la stessa Banca Centrale Europea (1.500 miliardi).
Il testo annuncia anche l’istituzione di un Fondo temporaneo per la Ripresa, “commisurato ai costi straordinari dell’attuale crisi”, che dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, muovere risorse per ulteriori 500 miliardi. Su tale fondo i governi europei hanno preso tempo. Le discussioni proseguiranno nei prossimi giorni: spetterà al Consiglio europeo definire gli “aspetti pratici e legali, inclusa la sua relazione con il bilancio Ue” e “le fonti di finanziamento”. Per la sua attuazione, il comunicato parla anche di “strumenti finanziari innovativi, coerenti con i Trattati Ue”. Parole vaghe che non incidono poco sulla sostanza dell’accordo: nessuna condivisione del debito, il peso della ricostruzione resta tutto sulle spalle dei paesi membri. Per l’Italia e il Sud Europa è una pesante sconfitta.
Le misure adottate ieri dall’Eurogruppo mobilitano risorse del tutto inadeguate a fronteggiare la crisi. C’è l’ok all’erogazione da parte della BEI di prestiti garantiti direttamente alle imprese: la struttura dell’operazione ricorda quella del piano Juncker, con un fondo di garanzia di 25 miliardi che potrà mobilitare linee di credito aggiuntive fino a 200. Una cifra molto contenuta rispetto ai piani di garanzia concessi in queste settimane dai governi nazionali.
Il programma SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency) si basa su un sistema di garanzie volontarie da parte degli Stati membri che dovrebbe consentire alla Commissione Europea di concedere prestiti fino a 100 miliardi per finanziare la cassa integrazione nazionale a interessi contenuti. SURE ha però due ordini di problemi: il primo è che si basa sulle garanzie dei paesi membri, ma non è chiaro quanti e quali fondi saranno impegnati né i tempi di avvio; il secondo è che sembra possa garantire prestiti per soli 10 miliardi di euro all’anno per l’insieme dei 27 paesi dell’Ue: decisamente poco per fronteggiare una crisi che secondo l’ILO avrà effetti “devastanti” sul mondo del lavoro. Per avere un’idea delle cifre in ballo, il Decreto Cura Italia di marzo ha finanziato la cassa integrazione in deroga per 3,2 miliardi.
Infine, l’accordo approvato ieri sul MES prevede la concessione di linee di credito, senza alcuna condizionalità, per sostenere il solo “finanziamento di spese sanitarie dirette o indirette, cura e costi della prevenzione collegata al Covid-19”. Le risorse disponibili sarebbero pari a 240 miliardi di euro (sui 410 disponibili). L’architettura del MES, tuttavia, ne fa uno strumento inadatto a fronteggiare questo tipo di spese, vincolato da un iter che richiede diversi momenti di valutazione della solvibilità del debito da parte della Commissione e del Consiglio Europeo, nonché dalla possibilità di revisione delle condizioni di accesso ai finanziamenti nel tempo. E il documento redatto ieri dall’Eurogruppo fa esplicito riferimento alla necessità, dopo la fine della pandemia, di “rafforzare i fondamentali economici e finanziari, in modo coerente con il quadro degli impegni europei”: le condizionalità del MES in termini di austerità e vincoli di bilancio, uscite dalla porta, rientrano così dalla finestra. Per l’Italia le risorse a disposizione nel MES ammonterebbero a 36 miliardi di euro, una cifra comunque insufficiente a far fronte all’insieme delle spese anti-coronavirus (nel complesso il governo prevede di stanziare – per ora – una cifra non inferiore ai 50 miliardi).
Quello del ricorso al MES è tuttavia un falso problema (e, del resto, Italia e Spagna hanno già dichiarato di non voler farvi ricorso). Come detto, le misure decise ieri dall’Eurogruppo lasciano infatti sulle spalle dei governi nazionali l’onere del debito che verrà contratto per le spese emergenziali e per la ripartenza dell’economia. Nell’assenza di una politica fiscale comune, il ruolo fondamentale continuerà a essere giocato dalla Banca Centrale Europea, cui spetterà il compito di contenere la risalita degli spread, garantendo margini di manovra agli Stati membri.
Ma poiché i paesi dispongono di un diverso spazio fiscale, il risultato sarà inevitabilmente l’aggravarsi dell’asimmetria nelle risposte alla crisi e un’ulteriore frattura fra i paesi del Nord e quelli del Sud. Questi ultimi, MES o non MES, saranno chiamati tra qualche mese o il prossimo anno – quando il contagio si sarà presumibilmente ridotto – a far quadrare i conti con manovre di bilancio di difficile gestione, che richiederanno comunque un forte aggiustamento sul piano dei conti pubblici, di fronte a rischi sociali crescenti, come la crisi del 2008 ha chiaramente mostrato. Con la speranza che la BCE continui a inondare di liquidità per stabilizzare i mercati finanziari.
Non è possibile, a questo stadio, capire come potrà incidere il Fondo per la Ripresa. Molto dipenderà dall’entità degli investimenti (non basteranno certo 500 miliardi, soprattutto se il blocco dell’attività economica proseguirà ancora per molto), dalle modalità di distribuzione dei fondi e soprattutto dalle modalità di finanziamento: le risorse saranno trovate dall’anticipo dei fondi del bilancio Ue per il 2021-2027, per cui non si è ancora trovato un compromesso sull’insignificante cifra dell’1% del Pil? I titoli verranno acquistati dalla BCE, “monetizzando” parte dei fondi per la ripresa? Ci sarà l’intermediazione della BEI? Quali saranno i tempi di attuazione del Fondo?
È evidente che la riunione dell’Eurogruppo ha solo posticipato il momento in cui l’Europa sarà chiamata ad affrontare i nodi di fondo del progetto europeo. Ancora una volta, i governi mettono in piedi politiche fiscali inadeguate e con grave ritardo. Per l’Europa, attesa a sfide enormi in futuro nella competizione con Stati Uniti e Cina, restano sul tavolo le questioni irrisolte di un maggiore coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale e quello, meno dibattuto, fra l’individuazione di uno spazio fiscale europeo e le scelte di politica industriale che riducano gli squilibri strutturali fra i paesi dell’Unione. Senza una spinta in queste due direzioni il progetto europeo è destinato al fallimento.
Il punto, senza troppi giri di parole, è come finanziare l’economia reale senza incidere sulle finanze già disastrate dei paesi del Sud Europa. Gli EuroBond, o qualsiasi strumento simile, possono rappresentare parte della soluzione. Il finanziamento diretto da parte della BCE con l’acquisto di titoli dell’Unione Europea o della BEI per i programmi di ricostruzione e il bilancio europeo potrebbe essere un ulteriore strumento. Non dimentichiamo che la Banca d’Inghilterra ha appena deciso di finanziare direttamente (anche se in modo temporaneo) il Tesoro inglese. Un’altra possibilità è affidare un ruolo maggiore alla BEI. Il suo ruolo all’interno dell’Ue è cambiato nel tempo: è stata una banca di sviluppo regionale, ha favorito la promozione dell’indipendenza energetica negli anni Settanta, ha avuto un ruolo nelle politiche di liberalizzazione e privatizzazione negli anni successivi, ha rappresentato la valvola di sfogo del piano Juncker per dare respiro agli investimenti in Europa.
Negli ultimi anni la BEI ha sviluppato una vasta gamma di competenze e strumenti basati su a partenariato tra istituzioni pubbliche e attori privati che le hanno consentito di operare efficacemente sui mercati finanziari. Mantiene ancora dei vincoli che la rendono inadeguata a finanziare una vasta gamma di investimenti, soprattutto quando esiste una forte natura pubblica delle attività e un’alta incertezza tecnologica e di mercato. Un’ulteriore evoluzione della BEI in questa direzione potrebbe conferirle un ruolo cruciale nell’evoluzione di una nuova politica fiscale e industriale, coerente con il mandato di riformare le attività economiche dell’Unione Europea: una banca pubblica degli investimenti e per la ricostruzione, capace di garantire spazio fiscale ai paesi più in difficoltà e contenere gli squilibri strutturali fra i paesi dell’Unione, creando capacità produttiva condivisa fra i paesi dell’Unione.
Le trattive hanno avuto il merito di far emergere, per la prima volta in modo ufficiale, un blocco di paesi favorevoli a strumenti centrali di condivisione del debito per fronteggiare le sfide comuni. Il blocco è composto dai paesi della periferia d’Europa ma anche da Francia, Belgio e Irlanda. Rendere chiara la costituzione di un’alleanza della “periferia” è un’altra possibilità. Muoversi secondo “geometrie variabili”, con accordi di “cooperazione rafforzata” fra alcuni paesi e fra questi e Stati Uniti e Cina potrebbe aprire nuovi scenari per il futuro.
Con il numero di morti arrivato a oltre 17.000 e una chiusura forzata del paese che si protrarrà almeno fino a maggio, l’Italia affronta la crisi peggiore del dopoguerra dopo un decennio in cui si è fortemente indebolita. Il livello di Pil pro-capite è ancora 5 punti sotto il 2008. La Spagna è 4 punti sopra, la Francia 7, la Germania 10. Un declino legato alla perdita di livelli produttivi, non solo nelle regioni meridionali, e a una specializzazione sempre più orientata verso settori a bassa tecnologia e servizi tradizionali, con opportunità ridotte di diversificazione produttiva e assorbimento delle nuove tecnologie. Squilibri strutturali che l’architettura dell’Unione Europea ha drammaticamente accentuato.
Le conseguenze economiche e sociali dell’austerità saranno gravi per l’Italia e controproducenti per l’Unione Europea stessa. Restringere gli spazi del welfare, tagliare la spesa sanitaria, è l’opposto di quello che servirebbe ora. Politiche di questo tipo servono solo a minare le basi del debole consenso per il progetto europeo che è ancora presente nel nostro paese.
Nel settembre del 2011 il presidente uscente della BCE Jean Claude Trichet e il Presidente appena nominato Mario Draghi inviarono una lettera al Primo ministro del governo italiano, Silvio Berlusconi, suggerendo una serie di misure volte a condizionare la politica economica del governo in risposta alla crescente preoccupazione dei mercati finanziari sulla tenuta dei conti pubblici dell’Italia: politiche di austerità, privatizzazioni dei servizi pubblici, indebolimento del meccanismo di contrattazione salariale collettiva, maggiore flessibilità del mercato del lavoro, riforma del sistema pensionistico. Un programma neo-liberista che il subentrato governo di Mario Monti riuscirà a mettere in pratica solo in parte. Quelle misure non solo si sono rivelate controproducenti per la crescita del paese (e per la riduzione del rapporto debito/Pil), ma hanno causato profondi e continui sconvolgimenti sul piano politico, con l’ascesa dei Cinque Stelle e l’avanzata della Lega “sovranista”. E questa volta la spinta dei nazionalismi sarà più forte.
Nella primavera del 2012, sulla scia della crisi dei debiti sovrani, Sbilanciamoci! pubblicò due volumi dal titolo “La rotta d’Europa”. Al dibattito presero parte importanti intellettuali ed economisti italiani, come Rossana Rossanda, Luciano Gallino, Giorgio Lunghini. A rileggere i contributi, la sensazione è che, da allora, l’Europa politica abbia fatto davvero pochi passi avanti: l’Europa è e resta un progetto incompleto, che sembra incapace di offrire una prospettiva di sviluppo a tutti i suoi cittadini. Oggi come allora, l’Europa non sembra capace di futuro. Dobbiamo prepararci.