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Una lettura delle recenti proteste in Iran

I moti di protesta che hanno recentemente coinvolto oltre 70 città iraniane non sono della stessa natura della rivolta studentesca del 1999 e del movimento verde del 2009. Sono il segno di un generale senso di frustrazione che ha raggiunto un picco tra i più disagiati

I moti di protesta che hanno recentemente coinvolto oltre 70 città iraniane non sono della stessa natura della rivolta studentesca del 1999 e del movimento verde del 2009. Questa rivolta è stata capace di portare in strada soprattutto gli strati sociali più disagiati delle periferie, che fino ad oggi e nella storia dell’Iran post-rivoluzionario avevano manifestato il proprio dissenso nei confronti del regime in maniera scarsa e contenuta. In soli sei giorni di agitazione sociale, le richieste dei manifestanti hanno rapidamente raggiunto una dimensione estremista e radicale. Subito dopo la prima giornata di protesta nella città di Mashhad Eshaq Jahangiri, il vicepresidente del governo di Rouhani, ha rilasciato un’importante dichiarazione: “Coloro che scatenano proteste politiche per le strade potrebbero non essere gli stessi che traggono conclusioni dalle proteste stesse, dal momento che altri potrebbero cavalcare l’onda emotiva da loro iniziata, ed essi devono sapere che le loro stesse azioni potrebbero ritorcersi contro di loro”. Attraverso questa dichiarazione il governo di Rouhani intendeva puntare il dito contro un oppositore delle scorse elezioni: Embrahim Raisi, un esponente molto influente del clero vicino a Leader Supremo che grazie al supporto del suocero -a sua volta mullah dalle idee radicali- da anni attacca sistematicamente il governo in carica su diversi fronti, cercando così di accrescere i propri consensi.

Jahangiri aveva ragione: le proteste si sono diffuse con grande rapidità e hanno sconfinato ampiamente gli scopi di Raisi e delle poche centinaia dei suoi sostenitori che sono scese in piazza (presumibilmente contro la corruzione) a Mashhad, attirando rapidamente nuove persone e proliferando in altri centri urbani. Gli slogan, inizialmente limitati a carovita e corruzione, hanno ben presto iniziato ad attaccare la totalità del governo in carica, con la richiesta di cambiamenti radicali nella natura dello Stato e nella politica estera dell’Iran.

Diamo una rapida occhiata al contesto all’interno del quale ha preso vita questo movimento. La politica dell’Iran post-rivoluzionario appare come un miscuglio di elementi democratici e non democratici. Lo Stato post-rivoluzionario si è fin da subito prodigato per definire confini e limitare con veemenza ogni forma di democrazia diretta (partiti politici, movimenti sociali, libero giornalismo, libero utilizzo degli spazi pubblici, sindacati). Nel corso degli ultimi 20 anni, qualche raggio di luce si è fatto strada ogni qualvolta era in carica un governo di moderati o riformisti, tuttavia il ruolo della democrazia diretta si è sempre mantenuto trascurabile. I cittadini iraniani si sono così trovati costretti ad esercitare il proprio potere politico ed i propri diritti civili solo attraverso le urne. Anche mettendo da parte queste limitazioni costitutive, la situazione politica resta gravata dalla sua complessità strutturale. In Iran il sistema elettorale è solo uno dei pilastri –il più debole- dell’establishment politico. Il pilastro più solido è quello non elettorale, quello imposto ai cittadini attraverso l’esercizio del potere sempre crescente del Leader Supremo (Ali Khamenei) e delle istituzioni che sotto il suo comando esercitano il potere esecutivo (il sistema giudiziario e le forze armate).

In una tale atmosfera di strangolamento socio-politico il malcontento generale è scontato, seppur scaturito da molteplici motivazioni in diversi strati della società ed espresso con diverse modalità nel corso degli anni.

Analizziamo le differenze tra le proteste del 1999, del 2009 e le più recenti. La protesta del 1999 fu iniziata e portata avanti dagli studenti di Tehran, in risposta alla censura della stampa di opposizione. L’allora presidente Khatami, rappresentante di un governo riformista che avrebbe potuto assumere il ruolo di leader o quantomeno difendere i manifestanti, si arrese alla linea dura degli esponenti non eletti del potere, ponendo le basi per una repressione violenta che ha determinato l’incarcerazione, la tortura, l’uccisione e persino la sparizione di alcune persone. Benché le sue dimensioni fossero inizialmente molto ridotte, in pochi giorni la protesta ottenne crescenti consensi anche al di fuori delle università e si guadagnò il supporto degli intellettuali. Tuttavia, visti la natura delle richieste (la libertà di stampa), i suoi limiti geografici (solo il centro di Tehran) e la violenta repressione, la protesta fu rapidamente dispersa.

Il movimento verde prese vita nel 2009 come protesta contro i risultati delle elezioni (la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad) manovrate dagli elementi non eletti dello Stato. Gli sconfitti Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi (entrambi riformisti con idee progressiste) denunciarono pubblicamente diverse infrazioni delle leggi durante le elezioni. I cittadini (i sostenitori degli sconfitti ma anche molti astenuti) scesero in piazza inscenando enormi cortei silenziosi, e chiedendo una revisione dei risultati elettorali. Agli elementi non eletti dello Stato questo non piacque e la macchina della soppressione venne messa in moto alla sua massima potenza e, dopo 7 mesi, e a spese di numerose vite, incarcerazioni e sparizioni riuscì a riportare la situazione sotto il loro controllo. A differenza di Khatami, Mousavi e Karroubi si unirono ai manifestanti, e ad oggi sono ancora agli arresti domiciliari. L’agitazione fu soppressa, e nessuna delle richieste fu esaudita. Lo Stato aveva tuttavia rimosso la maschera mostrando il suo volto violento, a molti sconosciuto. Gli iraniani non dimenticarono il 2009, e non perdonarono mai il regime. Ma la maggioranza delle persone andò avanti, senza perdere le speranze in un possibile cambiamento.

La protesta del 2017 si distingue dalle precedenti per alcune caratteristiche, prima tra tutte il contesto socio-geografico. Dopo il primo episodio a Mashhad i moti si sono moltiplicati in città di piccole e medie dimensioni. A Tehran si sono verificati solo episodi piuttosto sporadici e di piccolo scala. La protesta ha ricevuto il maggior slancio in città più piccole dove la disoccupazione e l’inflazione avevano colpito più duramente. Questa volta i manifestanti si sono focalizzati sulla loro situazione economica e, avendo poco da perdere, hanno colto l’opportunità per fare delle richieste più radicali nonostante l’elevata possibilità di incorrere in una repressione violenta, puntualmente verificatasi con un bilancio finale di 25 morti e oltre 3700 arresti. Inoltre, nelle piccole città iraniane le persone si conoscono e sono consapevoli degli affari personali altrui. Per queste persone è molto difficile accettare che un piccolo gruppo di loro concittadini goda di benefici e privilegi sproporzionati per il semplice fatto di appartenere agli elementi non democratici dello Stato. In questa protesta la partecipazione della classe media, degli intellettuali e degli abitanti delle città maggiori del Paese è stata scarsa. La ragione potrebbe risiedere nella scarsa fiducia di questi gruppi sociali nei confronti della ricerca del cambiamento attraverso la rivolta o nella consapevolezza della minaccia straniera, pronta a cavalcare l’onda di una simile protesta ed a strumentalizzarla per i propri scopi. Tuttavia, anche la frustrazione di questo segmento della società ha raggiunto un limite, e questa è la seconda caratteristica peculiare della recente protesta: sebbene la sua forma non sia condivisibile dalla classe media cittadina, il suo contenuto di malcontento è completamente condiviso, come dimostrato dalle precedenti rivolte del ’99 e del 2009. Nella società iraniana si respira un generale senso di frustrazione senza precedenti che ha raggiunto un picco tra i più disagiati, che pertanto hanno spostato le loro richieste su un piano più radicale mirando al rovesciamento del regime senza curarsi delle conseguenze.

La terza caratteristica è l’integrità. La protesta è priva di un leader, e a differenza delle precedenti non vi è un protagonista identificabile (potenziale o de facto) che può guidare la frustrazione pervasiva verso obbiettivi concreti e raggiungibili. Rohuani come rappresentante legale dei cittadini avrebbe potuto fare di più per evitare questa situazione o quantomeno mediarla, ma ha scelto di non farlo. Appena prima che la protesta iniziasse ha annunciato curialmente la nuova legge di bilancio con tagli massivi sui sussidi sociali e sul welfare, aumentando il prezzo del petrolio e destinando inspiegabilmente enormi quantità di denaro pubblico al clero. Dopo le proteste, in occasione di un meeting con i membri del Parlamento Rohuani ha confessato che il suo governo non ha potere su più del 55% del budget annuale, e che il controllo governativo di questa quota di denaro è decaduto in favore degli elementi non eletti dello Stato! Troppo tardi per lui: le masse frustrate che nelle ultime decadi hanno perseguito nel dare altre opportunità al susseguirsi di diversi governi per la risoluzione dei problemi sociali, economici ed ambientali si sono sentite nuovamente tradite e questa volta la loro rabbia ha raggiunto il culmine e sono scese in piazza.

Probabilmente il fattore che più significativamente distingue la protesta attuale da quelle che l’hanno preceduta è il malcontento trasversale senza precedenti all’interno di una società altamente frammentata in termini di condizioni socioeconomiche. Rohuani è riuscito ad ottenere una certa credibilità attraverso lo storico patto nucleare, ma a causa della sua applicazione solo parziale –causata principalmente dall’ostruzionismo degli Stati Uniti- ha perso consensi tra gli elettori. Nelle ultime elezioni il 42% di 56.4 Millioni degli aventi diritto ha votato per Rouhani ma oggi la maggior parte dei suoi elettori si dichiara delusa dalla sua incapacità di risolvere i problemi economici del Paese. Circa il 28% ha votato per il candidato conservatore Ebrahim Raisi. Questa parte dei votanti proviene principalmente dai circoli vicini al Leader Supremo o appartiene alle classi più povere che sperano in un miglioramento delle condizioni economiche. Circa il 27% degli aventi diritto si è astenuto dal voto, convinto che la componente non democratica dello Stato detenga il potere e che le elezioni siano solo una formalità. In un paese semi-teocratico e altamente politicizzato come l’Iran, il fenomeno dell’astensionismo andrebbe interpretato anche come atto politico. La società iraniana pluralista e variegata è molto turbolenta in questi giorni, poiché nell’Iran post-rivoluzionario non era mai accaduto prima che la maggioranza assoluta della popolazione condividesse la stessa condizione: l’infelicità. Persino nei momenti difficili della Guerra tra Iran e Iraq, una speranza per un futuro migliore e più glorioso era sopravvissuta almeno in alcuni frangenti della società.

Il Leader Supremo dell’Iran, a capo della componente non eletta dello Stato, ha recentemente puntato il dito contro i governi stranieri incolpandoli di “supportare i manifestanti con denaro, armi, ed un apparato politico e di intelligence per mettere in difficoltà la Repubblica Islamica”.

Avendo riconosciuto la minaccia straniera ed il rischio di strumentalizzazione di una rivolta legittima da parte di alcuni personaggi politici esteri inclusi monarchici iraniani e superpotenze straniere, l’establishment deve riconoscere ed affrontare anche i problemi del proprio popolo, garantendo loro uno spazio dignitoso per la partecipazione politica ed il potere decisionale riguardo le risorse collettive della Nazione. Il cerchio chiuso delle élite politiche corrotte che hanno governato il paese negli ultimi 40 anni ha bisogno di essere spezzato, e in questo senso preparare la strada per gli strumenti di democrazia diretta risulta di cruciale importanza. Solo implementando tali misure la popolazione potrà essere omogeneamente consapevole della minaccia straniera e del doppiogiochismo delle superpotenze nella regione; solo allora si potrà evitare la disgregazione totale del Paese.

 

L’autore

Arman Fadaei è un urbanista iraniano residente a Milano. Il suo principale ambito di ricerca è la disuguaglianza nelle città dei Paesi in via di sviluppo. Ha svolto parte del suo dottorato di ricerca presso l’Università della Pennsylvania e da diversi anni è assistente alla docenza nella facoltà di urbanistica del Politecnico di Milano. Nella sua tesi di dottorato ha approfondito le diverse dimensioni della disuguaglianza nelle aree urbane dell’Iran, incluse le dimensioni politica e strutturale.