Forum/4. Le parole che ci sono, e quelle che mancano. Alcune riflessioni a margine degli incontri e dei dibattiti su “un’altra strada per l’Europa”
Sembra utile portare l’attenzione su tre aspetti – tra i molti altri possibili – che caratterizzano la fase che stiamo attraversando, facendo riferimento alle molteplici fonti di informazione che ci raggiungono: giornali, radio, tv, internet.
Forse non sarebbe del tutto irrilevante fermarsi a riflettere – non tanto sulle ovvie considerazioni sui criteri di selezione e di “manipolazione”, appunto, di numeri e parole – ma su come in noi, nell’opinione pubblica, queste categorie di lettura della nostra società si siano via via consolidate e stratificate. Dico “nostra società” perché un primo problema è proprio l’attenzione – quasi esclusiva – che in molti media viene rivota alla situazione in Italia. Non che allargando lo sguardo al resto dell’Europa (o del mondo) avremmo informazioni più consolanti: ma un primo aspetto che forse non sarebbe male aver sempre presente è come, appunto, i problemi con cui noi ci dobbiamo confrontare toccano, in modi diversi, gran parte della gente (di “noi”, dunque) in tutto il mondo. Saperlo non alleggerisce ansia e preoccupazioni: ma magari allarga, apre, la consapevolezza e anche l’impegno a cercare di capirle queste cose, a riuscire a essere informati in modo corretto. Viverla, questa fase, con la testa il più possibile aperta.
Le parole, dunque: crollo della fiducia, disastro, l’orlo del baratro, catastrofe: e naturalmente, crisi. Per i giornalisti, certo, la scelta dei termini che da usare è molto importante (non posso non osservare anche come voci che ci portino a pensare, dietro ai numeri e alle parole, alle persone, non ne arrivino: quelli delle scienze sociali, i sociologi in particolare, non si sentono).
Per statistici ed economisti contano di più i numeri
Abbiamo dati (dell’Istat e dell’Ocse e di altre fonti ufficiali) su pensionati e disoccupati, sugli esodati e sui “giovani che non lavorano e non studiano”. Anche sul crollo dei consumi: carrelli della spesa sempre più vuoti, calano le vendite nella stagione dei saldi, pochissimi quest’anno in vacanza, e via.
Da tutti esce un quadro molto pesante della nostra situazione (certo, sono medie nazionali, dunque calcolate su realtà territoriali e sociali molto disuguali). Ovvio comunque che in questa fase ci si debba occupare soprattutto delle grandi dimensioni dei fenomeni. Nel discorso pubblico va tenuto alto il livello dell’attenzione su numeri pesantemente preoccupanti. Comprensibile che di fronte alla gravità dei problemi (appunto, disoccupazione, povertà, mancanza di servizi) non si guardi a situazioni o categorie “minoritarie”. Qui però il secondo punto.
Non tutti sono proprio “minoritari”. Due parole non presenti (quasi mai, solo eccezionalmente) le voglio richiamare: immigrati e lavoro nero, e tra le due ci sono ovviamente collegamenti.
Non parlare delle molte modalità del lavoro nero, di quanto c’è di implicito dietro questa parola, e dei numeri: ogni tanto su questo mi viene da riflettere. Anche perché tutti li conosciamo, e ne traiamo vantaggi, da questi processi. Di immigrati e immigrate, più in generale, non si è detto (quasi) niente, né da ministri del governo né dai tanto visibili e attivi esponenti sindacali: né parlando di “creare posti di lavoro”, o dei “giovani”, o del “ futuro”, appunto temi e parole al centro dell’attenzione. Come se non ci fosse questa componente, questa parte di “noi”, nel quadro complesso che stiamo attraversando.
Certo mi si potranno indicare alcune occasioni o iniziative in cui si anche fatto riferimento al mondo degli “immigrati”. C’è stato un intervento dell’Unione Europea (chi denuncia di essere stato oggetto di pratiche irregolari, se denuncia, avrà la cittadinanza). Un barcone con decine di persone morte di sete.
Per un giorno, se ne è parlato. Ma l’impressione è che si sia “scelto” – lo voglio dire così – di lasciarlo – questo problema aggiuntivo – ai margini delle analisi, delle proposte, della visione complessiva.
Va detto che – invece – sembra si sia imparato che alla categoria “donne” bisogna fare riferimento.
Arrivo alla terza considerazione: le considero importanti tutte, ma questa mi sembra la più urgente. Proprio non possiamo lasciarla fuori.
Si dibatte su possibili misure, si criticano le iniziative del governo, ci si interroga sul futuro che a un certo punto inevitabilmente sarà diverso dalla fase che stiamo vivendo. Abbiamo iniziative che vengono organizzate con prospettive e proposte in aperto contrasto con le impostazioni prevalenti: “un’altra Europa è possibile”, è stato detto.
Io – e molti altri, penso – li vediamo in questo modo, gli anni che abbiamo davanti: non irrimediabilmente (e anche pigramente, direi) senza cambiamenti, senza via d’uscita. E dunque ragionare e fare proposte interrogandosi e definendo, per quanto possibile, fasi e passaggi. Perché non esiste un generico futuro. C’è il breve, il medio, il lungo termine (lo abbiamo imparato da moltissimi contributi di “esperti”, economisti in particolare).
Analisi della situazione attuale e interventi e politiche (e i possibili effetti) devono essere formulati appunto distinguendo queste diverse “dimensioni”, “fasi”, “tappe”. Si può parlare del futuro solo se riusciamo a delineare in termini – per quanto possibile precisi – come si sia messi al presente, e che cosa sarà possibile realizzare in fasi successive (appunto diverse, e tra loro collegate, è chiaro).
Subito c’è il breve termine, il più duro. Ma forse saremmo più realisti, e meno disperati e pessimisti, se avessimo un’idea di quanto questo passaggio pesante presumibilmente durerà, e di come impegnarsi per passare al successivo, il medio termine.
Anche il lungo termine ci riguarda: dunque cambiamenti tecnologici, ambientali, economici, demografici, sociali; la dimensione globale in cui gli “attori sociali” saranno collocati.
A un certo punto arriveremo a una fase certo diversa, e chissà, probabilmente anche noi, “attori sociali” appunto, riusciremo a essere diversi.