Mentre a Bruxelles si discute di ReArm Europe, il Piano per il riarmo da 800 miliardi di euro proposto dalla Presidente della Commissione europea von der Leyen, l’economia reale ha già intrapreso la via della riconversione al militare, con l’automotive a fare da battistrada. L’Italia non fa eccezione.
Gli ultimi dati Istat sulla produzione industriale toccano i 2 anni tondi tondi, e consecutivi, di calo: sono 26 mesi su 27 da quando è in carica l’esecutivo presieduto da Giorgia Meloni. Il che la dice lunga sulla totale assenza di politiche industriali da parte del governo di destra, così come di quello che lo ha preceduto. A trascinare verso il basso la produzione è il settore auto, in crisi da tempo e plastico esempio dell’abbandono di un settore trainante da parte della politica, del tutto succube ai chiari di luna di Stellantis.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, all’ultimo tavolo ministeriale con imprese e sindacati del settore automotive dello scorso 14 marzo, ha invitato le aziende a “diversificare e riconvertire le proprie attività verso la Difesa”. Per poi confermare che il piano strategico in questa direzione sarà presentato a giugno, all’interno del “Libro Bianco” sulla politica industriale, con una serie di incentivi per il settore. Il taglio al Fondo automotive nella scorsa manovra di bilancio, con le risorse dirottate alla Difesa, è stato evidentemente il primo passo. Anche il ministro dell’Economia, il leghista Giorgetti, si è sempre esposto sulla necessità di riconvertire alcuni settori industriali verso la Difesa, a dimostrazione che le schermaglie nella maggioranza di governo non sono tanto sul “se” avere un piano di riarmo, ma sul come finanziarlo.
Nelle aziende, però, questa è una realtà che si sta già vivendo, e non da ora. Un viaggio a Torino, in occasione del convegno annuale dell’Alleanza Clima Lavoro dello scorso 13-14 marzo, è stato l’occasione per tastare il polso della situazione. A partire dall’Aeroporto del capoluogo torinese. I cantieri dell’aeroporto Caselle hanno infatti un nome: Leonardo. Un delegato racconta che l’azienda si sta espandendo, raddoppiando i suoi spazi, usando quelli che Stellantis ha concesso, là dove prima arrivavano gli aerei privati degli Agnelli: “stiamo raddoppiando la verniciatura e allargando la fabbrica”, racconta. Un lavoratore degli uffici pubblici adiacenti, conferma l’interesse dell’azienda su quell’edificio. E anche lo stabilimento di La Spezia si sta ingrandendo, soprattutto nell’ottica della nuova joint venture con la tedesca Rheinmetall, di cui parleremo più avanti.
Se Leonardo sta già spostando da tempo gli investimenti dal civile al militare, vedi l’uscita dal capitale di Industria Italiana Autobus, unica impresa pubblica che produceva il mezzo urbano collettivo, anche le altre aziende si adeguano all’aria che tira. Sono gli stessi delegati delle fabbriche automotive del torinese a testimoniare che la contro-riconversione, dal civile al militare, la stanno già vivendo. “La mia azienda si occupa di ingegneria, è piuttosto lontana dall’ambito della Difesa. Ma sta valutando investimenti in quel settore”, dice un giovane delegato, aggiungendo: “per me, obiettore di coscienza, è un problema”. I due delegati di un’azienda che tratta metalli spiegano che già differenziano i propri committenti, che si allargheranno anche alla Difesa. “Si sta pensando di investire sulle armi, non sull’auto”, conferma il delegato di un’altra fabbrica metalmeccanica.
Il tema riguarda anche Stellantis: se ne è parlato al recente tavolo ministeriale sull’automotive sopra richiamato. Samuele Lodi, responsabile del settore mobilità della Fiom Cgil, racconta che il ministro Urso ha dichiarato che ci saranno confronti per affrontare il tema della riconversione per gli stabilimenti di Stellantis in maggiore difficoltà, come quelli di Cassino e di Termoli, dove è stato accantonato il progetto per realizzare la gigafactory per la produzione di batterie. Urso definisce il comparto bellico un settore “in forte espansione”, e su questo purtroppo non c’è dubbio, e ad alta redditività. E qui invece i dubbi sono decisamente maggiori. “Al di là dell’aspetto etico, non riusciamo a riconvertire il settore auto verso l’elettrico, come si può pensare di riconvertirlo al militare? E con quali ricadute sui posti di lavoro?”, commenta Lodi. La Fim-Cisl, invece, parla di “opportunità da cogliere”.
Spulciando nei giornali locali si trovano già diverse storie di imprese “in via di riconversione”. Come la Faber di Castelfranco Veneto, che ha rispolverato i vecchi impianti di fabbricazione di ogive e bossoli, proprio per ricominciare a produrli. Lo stesso si pensa per la vicina Berco, azienda in crisi che vede ora nel militare un’alternativa. E se il tema sta attraversando diversi comparti dell’industria italiana, il fulcro resta l’automotive. In Germania su questo fronte si sta correndo ed è ormai difficile tenere il conto di chi, inclusi grandi marchi auto come Volkswagen, si sta riconvertendo sul militare. Il traino è Rheinmetall, colosso tedesco che produce sia per l’industria civile, sia per la Difesa. E che sta spostando verso quest’ultima le proprie produzioni.
Rheinmetall in Italia sta discutendo da tempo una joint venture con quella che in qualche modo può considerarsi la sua omologa italiana, Leonardo. Secondo fonti sindacali l’azienda tedesca sarebbe alla ricerca di nuovi stabilimenti nel nostro Paese per accrescere la produzione in ambito militare. A dicembre scorso, l’Amministratore delegato Armin Papperger, nel suo messaggio interno di fine anno agli stabilimenti – ben prima della presa di posizione pubblica di febbraio 2025 – aveva detto apertamente che la direzione sarebbe stata quella di portare parte degli stabilimenti di componentistica nella divisione armi e munizioni, a partire già da quest’anno.
Il messaggio, che abbiamo potuto visionare, è arrivato anche alle tre sedi italiane di Pierburg, azienda controllata di Rheinmetall, che si occupa di riduzione di emissioni nocive, valvole e pompe, alimentazione dell’aria. Due stabilimenti, a Lanciano e Livorno, e una sede a Torino per oltre 400 dipendenti. Dopo un appuntamento per un colloquio, l’azienda non ha risposto alle nostre telefonate, ma i sindacati confermano il contenuto del messaggio, che ha portato a un confronto interaziendale: sottolineano che per ora non ci sia un piano industriale in questa direzione, anche se le ricadute ci sarebbero. “Pierburg sta riconvertendo due stabilimenti tedeschi verso il militare, a Lanciano oltre all’automotive facciamo le linee di produzione: potremmo doverle riadattarle a quei cambiamenti”, dice Andrea de Lutiis della Fiom Cgil di Chieti.
Il Piano europeo per il riarmo da 800 miliardi di euro proposto dalla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ad oggi è ancora in fase di stallo, ma in Germania – e a traino in Italia – l’economia reale è già in corsa: una corsa iniziata ben prima che il Piano fosse messo nero su bianco. La riconversione ecologica, in cui l’attuale Governo Meloni non ha mai creduto, sembra ormai sostituita da quella bellica. E questa non è una buona notizia.