Le misure messe in campo da Pechino dopo il Covid 19 sono apparse più contenute di quelle per la crisi del 2008; sono intorno al 5% del Pil, meno della metà di quelle Usa. Eppure l’economia cinese è ripartita, e sta aumentando ancora la distanza con gli Usa.
Lo scoppio del Covid-19 e le correlate vicende successive hanno portato ancora di più alla ribalta il ruolo della Cina a livello economico e politico, tema che già prima della pandemia appariva al centro dell’attenzione. Qui di seguito cerchiamo di analizzare l’evoluzione di alcune delle molteplici questioni che toccano oggi il Paese asiatico dopo la pandemia e che pesano sempre di più a livello globale.
Il Pil e i consumi
Dopo l’arrivo del virus, il dati del Pil cinese hanno mostrato una caduta del 6,3% nel primo trimestre 2020 e una ripresa del 3,2% nel secondo, con previsioni per l’intero anno che oscillano in positivo intorno al 2,0-2,7%. Si tratta dell’unico caso importante al mondo di crescita economica nell’anno; solo forse per un paio di Paesi emergenti si pensa ad un possibile risultato positivo, ma appena sopra lo zero. Si stima poi che nei prossimi due anni l’economia possa registrare una dinamica positiva di almeno il 6% all’anno, se non molto di più.
Comunque rileviamo un quadro variegato, con alcuni indicatori più positivi di altri; così, mentre la produzione industriale e le esportazioni appaiono in forte crescita, i consumi interni si stanno riprendendo molto più lentamente. Essi sono aumentati dello 0,5% in agosto e forse lo faranno del 3% in settembre, ma nel 2019 essi erano saliti dell’8,0%. Hanno ancora difficoltà le Pmi, mentre molti lavoratori migranti stentano a ritrovare un’occupazione. A livello geografico, poi, la dinamica delle regioni costiere è più positiva di quelle interne.
Per quanto riguarda i consumi, pesa sui risultati la tendenza delle famiglie alla prudenza di comportamenti, come del resto in tutto il mondo dopo il coronavirus. Ma nel caso della Cina, come di altri, gioca anche un altro fattore, quello relativo al peso delle diseguaglianze (Pettis, 2020).
Da molto tempo ormai esse costituiscono un punto relativamente debole dello sviluppo cinese, che è sostenuto dall’offerta e molto meno dalla domanda. La loro quota sul Pil rimane debole. Essa dovrebbe aumentare a spese dei profitti delle imprese e dei patrimoni dei ricchi.
Così un rafforzamento della domanda richiederebbe presumibilmente rilevanti trasformazioni dell’economia e della società.
L’indebitamento
Dopo la crisi del 2008 i grandi piani di rilancio varati dal governo non solo permisero all’economia della Cina di riprendersi in fretta, ma diedero una spinta decisiva alla ripartenza dell’intera economia mondiale.
Questa volta le misure sono apparse più contenute; esse sono ammontate sino ad oggi intorno al 5% del Pil, meno della metà di quelle Usa. Certo, la ripresa cinese ha avuto l’effetto di far ripartire alcuni settori a livello mondiale, quale quelli delle materie prime, dei trasporti marittimi, nonché del lusso, ma esse hanno avuto un impatto complessivamente minore che nella precedente crisi sull’economia del mondo.
La cautela nelle misure prese è da attribuire in larga parte alle preoccupazioni nei confronti del livello dell’indebitamento interno, oltre che al fatto che l’economia sembra essere ripartita senza interventi clamorosi.
Il livello del debito è aumentato fortemente negli ultimi 12 anni e si valuta che esso abbia raggiunto nei primi mesi del 2020 il 320 circa del Pil; la quota maggiore spetta alle imprese non finanziarie, responsabili all’incirca della metà dello stesso, mentre quello pubblico dovrebbe aggirarsi sul 90% del Pil e quello privato sul 70%.
Le preoccupazioni sono mitigate dal fatto che la quasi totalità del debito è in mani cinesi e che molti dei prestiti sono fatti da banche statali a imprese statali, costituendo in un certo senso una partita di giro. La forte crescita dell’economia, creando risorse aggiuntive con cui far fronte agli impegni, riduce ancora molti dei rischi potenziali.
Il fatto poi che per i prossimi anni appare difficile immaginare un rialzo dei tassi di interesse dagli attuali bassissimi livelli aggiunge tranquillità al tutto.
Il decoupling
La crisi del coronavirus ha accentuato la corsa al rattrapage della Cina verso gli Stati Uniti; del resto, in lingua cinese la parola che si adopera per far riferimento alla crisi porta con sé anche il significato di opportunità.
Secondo i dati della Banca Mondiale, prendendo in considerazione il criterio della parità dei poteri di acquisto il Pil cinese ha superato quello degli Stati Uniti già da diversi anni (nel 2024 o nel 2016, secondo differenti stime dello stesso ente); nel 2020 esso dovrebbe guadagnare ancora 7-10 punti percentuali rispetto agli Usa.
Sempre le stime dello stesso ente indicano che nel 2019 il Pil dei Paesi emergenti si collocherebbe ormai intorno al 58% del totale, indicando una progressiva de-occidentalizzazione del mondo, almeno sul piano economico.
Dallo scoppio del virus ad oggi, intanto, Donald Trump ha accentuato la sua pressione per un decoupling dall’economia cinese, auspicando il rientro in patria delle imprese che hanno investito nel Paese asiatico e varando delle misure per frenare il suo sviluppo tecnologico.
Sulla scia di Trump anche altri Paesi hanno avviato dei programmi per incoraggiare il ritorno in patria degli investimenti fatti nel Paese.
Ma tale decoupling appare piuttosto problematico e di difficile applicazione.
Intanto, dopo diversi anni di contrasto alle importazioni cinesi, con guerra delle tariffe, accordi e varie altre mosse, il saldo commerciale tra i due Paesi rimane sostanzialmente dove era nel 2016. Nell’agosto del 2020 poi il surplus cinese rispetto agli Usa è aumentato del 27% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.
Intanto la Cina è ormai il più importante mercato mondiale per molti prodotti e la lista continua a crescere velocemente. Le sole imprese statunitensi stabilite nel Paese vi vendono per più di 500 miliardi di dollari all’anno. Essa è poi un fornitore irrinunciabile di moltissime merci per le imprese e i mercati esteri, grazie alla vastità, efficienza, affidabilità delle reti logistiche e dei fornitori, ad un imbattibile rapporto prezzo-prestazioni, a delle infrastrutture molto moderne, ad una forza lavoro istruita ed efficiente, al livello tecnologico (Moody, 2020). Essa è infine una grande importatrice. Così le grandi imprese multinazionali non possono lasciare il Paese pena rilevanti danni ai loro business.
In tale quadro si può pensare che il decoupling si svilupperà in misura relativamente limitata, in gran parte nei settori meno sviluppati, dove peraltro già le imprese cinesi stanno almeno in parte delocalizzando.
Comunque, la pandemia ha dimostrato che pressoché tutti i Paesi appaiono molto dipendenti dalla Cina per alcune produzioni strategiche, dalle forniture per la sanità sino alle terre rare; appare quindi plausibile che diversi Stati, dagli Stati Uniti alla Francia, cercheranno ora di fare qualcosa in merito, secondo noi, alla fine, con non grandi risultati. Tra l’altro, i prezzi cinesi sono fortemente competitivi.
Su di un altro piano, per proteggersi dalle pressioni politiche Usa diverse società stanno creando capacità produttiva ridondanti in Paesi vicini alla Cina.
Alla fine, da tutti questi movimenti ne potrebbe risultare qualche passo indietro o qualche ulteriore frammentazione nei processi di globalizzazione. Così sembra proprio che, ad esempio, internet tenda ormai a dividersi in due campi geografici distinti. Del resto, la stessa Cina sta portando avanti, in accordo con altri Paesi, un nuovo progetto per internet che plausibilmente non sarà accolto dai Paesi occidentali.
Le tecnologie
Dei diversi fronti su cui si svolge il conflitto tra Usa e il Paese asiatico per l’egemonia mondiale, quello dell’avanzamento tecnologico appare il più importante.
La Cina, partita da posizioni molto arretrate su tutti i fronti, ha con il tempo accresciuto fortemente gli investimenti in ricerca e sviluppo, riducendo progressivamente lo scarto con gli Stati Uniti e anzi diventando protagonista in molti settori, dai treni ad alta velocità, all’e-commerce, alla trasmissione di elettricità, all’elettronica di consumo, ai sistemi di telecomunicazioni 5G, all’intelligenza artificiale. Nel frattempo essa è anche diventata il Paese leader per quanto riguarda il deposito di brevetti e il numero di articoli scientifici pubblicati. Ogni anno dalle università cinesi escono quasi nove milioni di laureati.
Ma restano alcuni importanti punti di arretratezza, dai semiconduttori, ai motori per aerei civili, ad alcune aree del software.
Gli Stati Uniti provano a mettere in difficoltà Pechino imponendo una stretta sempre più forte su un crescente numero di tecnologie e di imprese del “nemico”. Ma la sensazione è che, mentre appare plausibile che la Cina potrà soffrirne in qualche modo nel breve termine, alla lunga essa ne dovrebbe uscire rafforzata, sviluppando in casa le tecnologie mancanti.
Il risparmio energetico
Molto di recente, con lo scoppio della pandemia, che sembra far accelerare i programmi ambientali, il presidente cinese Xi Jinping, mentre ha ribadito la sua antica promessa di raggiungere il picco delle emissioni nocive nel 2030, ha anche indicato la volontà di arrivare al 100% di neutralità carbonica o “emissioni zero” entro il 2060.
Ora, mentre si può valutare che in realtà il massimo delle emissioni sarà raggiunto molto prima, presumibilmente entro il 2025, l’ottenimento degli obiettivi al 2060 si presenta come un obiettivo molto impegnativo. Tra l’altro, ancora oggi il 60% dell’elettricità in Cina viene dal carbone (The Economist, 2020, a).
La Cina è oggi il più grande inquinatore in termini assoluti, con un’incidenza di emissioni di CO2 pari al 27% del totale mondiale, anche se non è il Paese con le maggiori emissioni pro-capite. Nello stesso tempo, essa negli ultimi anni è stata la promotrice di gran lunga più importante dei programmi di svolta energetica.
Di fronte agli Usa di Trump che negano persino il problema e all’Europa che fa molti programmi ma non riesce ad agire, negli ultimi anni il Paese asiatico ha infatti costretto il mondo ad incamminarsi sulla strada dell’auto elettrica, ha aperto la via all’impiego di massa dei pannelli solari e dell’energia eolica ed è stato anche il campione mondiale per il numero di nuovi alberi piantati; nello stesso tempo essa continua a costruire a ritmo sostenuto centrali a carbone.
Oggi la Cina produce il 72% dei moduli per l’energia solare, il 69% delle batterie allo ionio-litio, il 45% delle turbine eoliche, la gran parte delle vetture elettriche, mentre assicura la raffinazione di gran parte dei minerali critici per l’energia pulita (The Economist, 2020, b). Tra il 1978 ed oggi il territorio cinese coperto da foreste è passato dal 12% al 22% del totale (Dodwell, 2020).
Aspettiamo gli sviluppi.
L’impresa pubblica
L’attuale strategia economica cinese presenta almeno tre elementi di base (The Economist, 2020, c): 1) uno stretto controllo sul ciclo economico e sul livello del debito; 2) uno Stato più efficiente sul fronte amministrativo, tra l’altro con il varo di un nuovo codice civile e lo snellimento della burocrazia; 3) l’ulteriore abbattimento dei confini tra le imprese private e quelle pubbliche.
Queste ultime sono spinte a migliorare i loro risultati economici e a collaborare di più con gli investitori privati, mentre aumenta comunque, al contempo, il controllo su questi ultimi. Tra l’altro, le imprese pubbliche devono attrarre investitori privati e quelle private partner pubblici. Così è sempre più difficile distinguere tra i due settori.
Per quanto riguarda ancora le imprese pubbliche, dopo un lungo periodo in cui il loro peso tendeva a ridursi, in particolare dall’avvento di Xi nel 2012 tale tendenza si è andata rovesciando. Esse assumono sempre più ormai un ruolo guida, nell’ambito del ritorno ad modello di sviluppo dominato dallo Stato centrale
Una fonte stima così che il settore pubblico contribuisca oggi al 50% della produzione e al 40% dell’occupazione e dei profitti totali delle imprese del Paese, mentre tende ad assumere un ruolo guida nell’economia (Gabriele, 2020). La scommessa principale è quella di migliorare ancora i loro risultati di mercato, tecnologici, finanziari.
Lo yuan
Da giugno alla fine di settembre del 2020 lo yuan si è apprezzato nei confronti del dollaro del 4,5%. Tale rafforzamento appare dovuto alle migliori prestazioni dell’economia cinese rispetto a quelle occidentali, nonché alla parallela debolezza del dollaro e agli elevati tassi di interesse dei titoli cinesi. Questo ha contribuito, tra l’altro, ad un afflusso record di investimenti stranieri di portafoglio, afflusso che continua. Per la prima volta i titoli in valuta cinese diventano un bene rifugio in una crisi. Forse non sarà l’ultima.
Mentre in passato il Paese cercava di evitare un apprezzamento della valuta, anche per proteggere il livello delle esportazioni, ora non sembra curarsene troppo. Il fatto è che la Cina ha varato questa nuova strategia della “doppia circolazione”, secondo la quale sono i consumi interni che diventano il cuore della strategia di crescita. In questo quadro l’apprezzamento dello yuan, che dovrebbe durare nei prossimi anni, facilita le importazioni a basso costo, mentre aiuta l’internazionalizzazione della moneta cinese, oggi tra le priorità del governo.
La rivalutazione dello yuan è anche un segno del declino tendenziale del dollaro? Solo il tempo potrà dirlo.
Nel quadro dei temi monetari, va ricordato che da tempo la Cina sta sperimentando una valuta digitale sovrana con la collaborazione delle grandi banche pubbliche e tale sperimentazione si è molto allargata negli ultimi mesi, anche se non è chiaro quando tale moneta digitale sarà lanciata ufficialmente (Tang, 2020).
Tra le ragioni sottostanti a tale sviluppo, c’è sicuramente quella di difendere il monopolio di Stato nella stampa di moneta, di fronte anche alla minacce del varo di monete digitali private soprattutto statunitensi.
La moneta sarà usata tra l’altro nei servizi di pagamento elettronici oggi dominate da Tencent e Alibaba. Essa permetterà di controllare come viene usato il denaro in maniera molto più rapida di adesso, nonché di ridurre significativamente i movimenti clandestini di valuta e sarà anche la base per incrementare il ruolo internazionale dello yuan e contribuire a contrastare le minacce Usa di blocco dei circuiti finanziari.
Conclusioni
Molta attenzione dei media si è concentrata in questi mesi e per varie ragioni sulla Cina e sul conflitto Cina-Usa.
Si può dire che, dopo lo scoppio del virus, l’economia del Paese asiatico sembra uscire rafforzata nella sua competizione con gli Stati Uniti. Peraltro, per andare avanti in maniera adeguata esse deve sormontare diversi ostacoli: oltre che porre attenzione alla lotta con gli Stati Uniti, bisogna tenere sotto controllo il livello del debito, spingere sui consumi riducendo le diseguaglianze interne, portare avanti le politiche di risparmio energetico, avanzare sul fronte tecnologico, aumentare l’efficienza delle imprese pubbliche, perseguire i processi di internazionalizzazione dello yuan. Un programma sicuramente molto impegnativo.
Basandoci almeno su quanto i gruppi dirigenti cinesi sono riusciti a fare sino ad oggi e negli ultimi quarant’anni, sembra comunque plausibile che Pechino potrebbe riuscire a superare tali ostacoli senza gravi danni. Ma solo il tempo ce ne potrà dare conferma.
Testi citati nell’articolo
-Dodwell D., China’s emissions pledge joins bold efforts to halt climate change, www.scmp.com, 26 settembre 2020
-Gabriele A., Enterprises, industry and innovation in the PRC, Springer, Singapore, 2020
-Kimberley N., « Dual circulation and US-China decoupling are two reasons to strenghthen the yuan, www.scmp.com, 15 settembre 2020
-Moody A., No replacement for « Made in China”, experts say, China Daily, 27 agosto 2020
-Pettis M., The problems with China’s “Dual circulation” economic model, www.ft.com, 25 agosto 2020
–The Economist, Power in the 21th century, 19 settembre 2020, a
–The Economist, A greener horizon, 26 settembre 2020, b
–The Economist, Xi’s new economy, 15 agosto 2020, c