La battaglia dei rider è oggi una battaglia di tutto il mondo del lavoro, sebbene il numero dei ciclofattorini non sia così rilevante a livello nazionale perché incrocia tanti temi come dignità, contratto nazionale, voucher, cottimo. La storia della Riders Union Bologna e dell’interlocuzione con il Comune e Di Maio.
Si è fatto un gran parlare, in queste settimane, dei riders che lavorano per le piattaforme digitali di food delivery: giovani e meno giovani che, in bici o in motorino, consegnano i pasti a casa di chi ha effettuato un’ordinazione online. Luigi Di Maio, infatti, ha voluto incontrare proprio le rappresentanze auto-organizzate dei ciclofattorini nel giorno del suo insediamento al ministero del Lavoro e dello Sviluppo Economico: un gesto forte, fuori dalle consuetudini, che è tornato ad accendere i riflettori sulle condizioni lavorative di un pezzo di precariato di questo Paese, divenuto il simbolo della mancanza di diritti, salari adeguati, sicurezza e tutele.
Ma andiamo con ordine. Da tempo in questo settore – in Italia e non solo – si registrano conflitti significativi. Come nel complesso della “gig economy” – l’economia dei “lavoretti” lucidamente analizzata e criticata, tra gli altri, in un recente libro del giornalista Riccardo Staglianò – la prima fonte di attrito e tensione è la qualificazione del rapporto di lavoro. Le piattaforme tendono a presentarsi come meri intermediari tra domanda e offerta e non come datori di lavoro: da ciò consegue che i riders – come, del resto, gli autisti di Uber – non vengono mai riconosciuti come lavoratori dipendenti, ma come autonomi.
Questa organizzazione del lavoro – particolarmente aggressiva e rapace – comporta una fuga dalle regole e dalle tutele che storicamente si sono affermate dentro il rapporto di subordinazione come strumenti per riequilibrare l’asimmetria di potere tra la parte forte e la parte debole. Alcune sentenze, in giro per l’Europa, hanno messo in crisi questo modello organizzativo e la narrazione neoliberale (quella dell’auto-imprenditorialità) che lo sorregge: in Spagna il tribunale di Valencia ha smascherato la finta autonomia dei riders di Deliveroo, riconoscendo la natura subordinata della prestazione lavorativa; in Inghilterra è stato riconosciuto che l’autista di Uber non è un lavoratore indipendente, ma un worker – grado intermedio tra autonomia e subordinazione, che in Inghilterra – a differenza, ad esempio, della parasubordinazione italiana – riconosce l’accesso a molti diritti propri del lavoro subordinato come il salario minimo legale e le ferie pagate.
In Italia, invece, i giudici di Torino si sono pronunciati in primo grado contro la richiesta di riconoscimento di subordinazione perorata da alcuni riders di Foodora, che si erano rivolti alla magistratura dopo essere stati disconnessi in seguito alle proteste contro il cottimo: una sentenza probabilmente discutibile, forse dovuta al carattere storicamente conservatore dei giudici del lavoro di Torino (la città della Fiat, che ha sempre avuto buone entrature nella magistratura “sabauda”, come ben ricorda chi in quei tribunali ha difeso le ragioni dei metalmeccanici), forse all’inadeguatezza rispetto ai tempi della nozione di subordinazione sancita dall’art. 2094 del Codice Civile. Ma, su questo, torneremo in seguito.
Vale la pena spendere una riflessione sui percorsi di auto-organizzazione dal basso che i riders hanno saputo mettere in campo, perché è solo in seguito a questi che si è aperta una finestra di possibilità per migliorare le condizioni di chi lavora nell’economia dei “lavoretti”. In diverse città italiane i ciclofattorini si sono associati in forme di “sindacalismo informale”: è successo a Milano, Torino, più recentemente a Roma; ma forse è il caso bolognese quello più interessante, perché è riuscito a tenere insieme una carica di mobilitazione con l’intuizione di farsi carico di aprire una contrattazione metropolitana sul tema dei diritti negati.
Riders Union Bologna nasce fra ottobre e novembre 2017, dall’esigenza di alcuni lavoratori di incontrarsi per rompere l’individualismo della prestazione lavorativa cui erano condannati dalle piattaforme. Tramite un passaparola tra colleghi e con il supporto di attivisti del circolo Arci Ritmolento e del centro sociale TPO, i riders che si erano iniziati a riunire riescono a creare un primo nucleo assembleare composto da lavoratori e “solidali” (attivisti e ricercatori che hanno, nel corso del tempo, messo a disposizione dei riders competenze politiche, associative, accademiche, sindacali etc…). Un’accelerazione significativa al processo di organizzazione viene data dalla grande nevicata del 13 novembre: le strade di Bologna sono completamente coperte e inagibili, ma la sera gioca la nazionale italiana e le piattaforme non vogliono rinunciare al combinato disposto tra il maltempo e la partita, che potrebbe portare un boom considerevole di ordinazioni. Ma i riders non ci stanno: in forme spontanee rifiutano di lavorare e un vero e proprio sciopero paralizza l’attività delle piattaforme digitali.
Le rivendicazioni principali contenute da questo sciopero vertono in primis sulla sicurezza sul luogo di lavoro: viene lamentata, in particolare, l’assenza di un’assicurazione INAIL sugli infortuni (almeno per le piattaforme che inquadrano i riders come collaboratori occasionali, ossia la maggior parte di quelle presenti nel territorio bolognese) – anche questo frutto del non riconoscimento della natura subordinata della prestazione lavorativa. Riders Union Bologna trae nuova linfa e nuovi aderenti da questo sciopero, cui i giornali cittadini riservano ampio spazio. Il 24 novembre i riders felsinei tornano in piazza, con un flash mob che porta le rivendicazioni chiave elaborate in assemblea: salario orario dignitoso, fine della tendenza delle piattaforme a mettere in discussione la paga oraria in favore del cottimo, tutele assicurative e previdenziali, maggiorazioni per festivi, notturni e turni svolti sotto la pioggia.
La lotta per il riconoscimento messa in campo dai riders bolognesi suscita l’interesse della politica bolognese; da qui deriverà la richiesta di Riders Union di convocare un tavolo di contrattazione municipale, con il Comune a fare da facilitatore e da mediatore propositivo nella tutela dei diritti dei lavoratori. Una contrattazione inedita, dal momento che il Comune non ha competenze legislative e giuridiche specifiche per intervenire; ma ciononostante si tratta del primo tentativo su scala nazionale di favorire un dialogo tra le parti, costitutivamente negato dall’estremismo padronale e liberista delle piattaforme.
Questo percorso tortuoso ha portato alla sottoscrizione della Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale, firmata dal Comune, da Riders Union, dai sindacati confederali e da due piattaforme locali (Sgnam e Mymenù, che si sono nel frattempo fuse in un’unica società per meglio competere con le multinazionali del settore). La Carta contiene alcuni principi importanti, pur non pronunciandosi – perché un Comune non ne ha facoltà e potere – sulla qualifica giuridica del rapporto di lavoro ma impegnando le piattaforme firmatarie a garantire alcune tutele base a prescindere dalla natura del contratto: paga oraria ancorata ai CCNL di settore firmati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, indennità per festività notturni e maltempo, assicurazione, diritto all’organizzazione, al conflitto e a 10 ore annue di assemblea retribuita. La maggior parte delle piattaforme, pur consultate dal Comune, ha boicottato questo processo, mentre Just Eat si è dichiarata disponibile a firmare solo con lo stralcio del riferimento ai CCNL (posizione inaccettabile per riders e Comune). Le piattaforme firmatarie, ora riunite in un’unica società, ancora non hanno adeguato i contratti ai principi sottoscritti: la contrattazione di Riders Union con l’azienda sta andando avanti, con le parti ancora distanti.
In seguito alla firma della Carta di Bologna, è arrivato – è cronaca recente – un interessamento del governo, nella figura del ministro Di Maio: lo stesso, come detto, ha ricevuto i riders nel giorno del suo insediamento, garantendo che avrebbe fatto la sua parte nel sanare una condizione di precarietà. Di Maio ha successivamente incontrato le piattaforme, facendo allo stesso punto circolare una proposta che doveva originariamente essere contenuta all’interno del Decreto Dignità: essa proponeva l’estensione della nozione di subordinazione anche, fra le altre cose, a chi lavora per una piattaforme digitale. Una proposta capace di sanare i limiti della discutibile sentenza di Torino e di fermare finalmente una fuga di anni che il capitale esercita dal lavoro subordinato pur di minimizzare il costo del lavoro e gli oneri sociali (il cosiddetto “libertariato” celebrato dalle lobby delle agenzie interinali francesi).
Le piattaforme di food delivery hanno da subito visto questa proposta come fumo negli occhi; in particolare Foodora ha minacciato – evocando un ricatto occupazionale – di lasciare l’Italia; la proposta è stata criticata anche in settori confindustriali (dal momento che potrebbe applicarsi a molti altri segmenti di lavoro privato delle sue tutele, come quello dei call center outbound, regolato non da una legge ma da un contratto nazionale al ribasso che al momento impedisce a questi lavoratori di vedersi riconoscere la subordinazione per via giudiziaria), da Forza Italia (nel nome della più selvaggia libertà d’impresa), ma anche dal Partito Democratico (per cui evidentemente basta la Carta di Bologna, che invece per i riders felsinei è un punto di partenza e non certo di arrivo).
In seguito il governo ha – bisogna ancora valutare se in via temporanea o definitiva – tolto dal piatto la proposta di legge, facendo partire il Decreto Dignità senza questa parte. Nel frattempo si è aperto un tavolo di contrattazione al ministero, che il 4 luglio ha visto sedute tutte le piattaforme di food delivery, le associazioni datoriali, le esperienze auto-organizzate dei riders e i sindacati confederali. Il governo è sembrato orientato a favorire un accordo nazionale tra le parti, i riders – e anche la Cgil – si sono esposti sul riconoscimento della subordinazione a partire dalla proposta originaria del governo; alcune associazioni datoriali hanno messo sul piatto l’utilizzo dei voucher – su cui il governo sta in questi giorni decidendo per la reintroduzione, favorendo di fatto la facoltà dell’impresa di aggirare i contratti più che la dignità dei lavoratori.
Il tavolo nazionale, che si aggiornerà nei prossimi giorni, è quindi foriero sia di opportunità che di rischi. I riders sono consapevoli che la strada migliore resta quella della legge e la peggiore quella di un contratto corporativo che di fatto legittima il modello Fiat o accordi al ribasso come quello di cui subiscono gli effetti i lavoratori dei call center.
Di sicuro sui riders Di Maio si è esposto parecchio, impegnandosi a restituire speranza e diritti ai precari: la via per soluzioni intermedie, visto anche l’estremismo padronale delle piattaforme, è davvero risicata. Forse è la volta su cui il Movimento 5 stelle dovrà dimostrare di essere più netto, se vuole davvero dare respiro ai diritti sociali negati da anni e anni di controriforme neoliberiste: di certo non basta un Decreto Dignità senza reintroduzione dell’articolo 18 mentre si è aperto ai voucher per agricoltura e turismo (due settori ad alto tasso di irregolarità e sfruttamento dove, al contrario, andrebbe restituita centralità ai contratti nazionali) per poter vantare la difesa dei diritti dei lavoratori.
I riders, nel frattempo, probabilmente torneranno a ribadire l’insieme delle tutele necessarie a regolare il settore: paga oraria collegata al CCNL Logistica, divieto assoluto del cottimo, indennità per festivi e maltempo, assicurazione con l’INAIL, contribuzione previdenziale degna, nessuna disconnessione o licenziamento senza giusta causa, diritto all’organizzazione e all’assemblea. Tra rischi e opportunità, la partita in campo è interessante: i riders, forse indipendentemente dalla loro volontà, sono diventati un simbolo della precarietà dell’insieme del mondo del lavoro. Non sono gli unici a subire gli effetti della fuga dalla subordinazione (ci sono i collaboratori dei call center o le false partite Iva), non sono gli unici pagati a cottimo, non sono gli unici che domandano la richiesta di sicurezza sul lavoro, non sono gli unici a subire la disciplina di sovra-subordinazione della valutazione (pensiamo ai ricercatori precari).
La battaglia dei riders è dunque la battaglia di tutto il mondo del lavoro, sebbene il numero complessivo dei ciclofattorini delle piattaforme non sia così rilevante a livello nazionale. Dalla capacità della politica di regolare il settore a favore dei lavoratori e dalla capacità delle lotte dal basso di mettere in discussione precarietà e sfruttamento potremo capire meglio dove andrà il nostro paese nei prossimi anni.