I “Saggi” di Napolitano hanno poco da dire su produttività e relazioni industriali. Si continua con le stesse misure dei governi passati, che non fanno crescere la produttività e non tutelano il lavoro e i salari
Il gruppo dei Saggi nominati dal Presidente della Repubblica Napolitano ha reso pubblica la ricetta per affrontare la crisi individuando la loro “Agenda possibile” per il prossimo Governo (www.quirinale.it/qrnw/statico/attivita/consultazioni/c_20mar2013/dossier_gruppi.aspx). Ci occupiamo qui di un tema su cui Sbilanciamoci.info ha ospitato vari interventi: retribuzioni, produttività e relazioni industriali.
Il documento dei Saggi, nella sezione 3. Arrestare la Recessione, avviare la ripresa, alla fine del paragrafo 3.1 Creare e sostenere il lavoro, dedica alcune riflessioni a questi temi. Le novità sono poche, e quelle poche non sono buone.
1. Retribuzioni e produttività
Cosa suggeriscono i 5 Saggi che si sono occupati di proporre azioni per fermare il declino della produttività in Italia mediante lo strumento delle retribuzioni? Non hanno molta fantasia, e neppure sembra abbiano letto nulla, o molto poco, di quanto è stato scritto dopo l’accordo del 21 novembre 2012 tra le parti sociali, esclusa la Cgil, il noto Patto sulla produttività (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Produttivita-un-accordo-con-nulla-di-buono-15503).
Con l’obiettivo di incrementare l’efficienza e la produttività delle imprese, e garantire un beneficio economico ai lavoratori, si afferma che occorre stabilizzare il meccanismo attuale di agevolazione fiscale delle retribuzioni variabili nel settore privato. Tale agevolazione, scrivono i Saggi, “il cui ambito di applicazione è limitato quantitativamente ed al solo settore privato, potrebbe essere ulteriormente estesa, riguardando la quota parte di salario destinata a remunerare la qualità della prestazione. Per giungere a tale risultato si potrebbe prevedere, d’accordo con le parti sociali, uno spostamento della competenza sul tema alla contrattazione più decentrata, in modo da valorizzare anche le performance delle singole realtà produttive. Naturalmente, tale intervento dovrebbe essere accompagnato da interventi volti ad aumentare la produttività dell’impresa, senza i quali il meccanismo produrrebbe distorsioni, soprattutto nei confronti delle piccole imprese“ (p.22). Tutto qui, non aspettatevi altro.
Si ripropone il meccanismo previsto dal decreto del 22 gennaio 2013, quando ancora deve divenire operativo, e si chiede che venga stabilizzata la defiscalizzazione, ovvero che questa venga resa strutturale, permanente se interpretiamo bene. Che venga estesa anche al settore pubblico? Oppure si intende che venga allargata la quota di defiscalizzazione? Neppure questo è detto. Si afferma invece che estendere vuol dire legare il salario alla qualità della prestazione. Sagge parole, ma cosa significa, legarla alla qualità e non solo alla quantità? Certo, si chiede che maggiori competenze previste dal contratto nazionale passino a quello aziendale. Di quali competenze stiamo parlando? Forse materie contrattuali? Tutto ciò che riguarda l’organizzazione del lavoro e dell’impresa? Le mansioni, le qualifiche? Non è detto. Forse si intende una maggiore quota di salario, tutto quello legato al recupero della inflazione passata? (dato che è rimasto solo quello, e pure quello è molto parziale, dopo l’accordo del 22 novembre 2012).
Si afferma che ciò debba avvenire accompagnando interventi volti ad aumentare la produttività dell’impresa, senza i quali si creerebbero distorsioni soprattutto nei confronti delle piccole imprese: In queste – osserviamo noi – le agevolazioni non si applicano non essendovi in queste contrattazione aziendale. Quindi le distorsioni sarebbero quelle a favore delle imprese con contrattazione in cui i lavoratori beneficiano delle agevolazioni, magari anche quando la produttività non aumenta. Ecco allora che i Saggi avanzano un sospetto implicito, ovvero che il meccanismo delle agevolazioni fiscali possa essere adottato senza alcuna azione sulla produttività, a fini cosmetici appunto, con il rischio di spreco di denaro pubblico e di diseguale trattamento dei lavoratori sul quale più volte abbiamo richiamato l’attenzione.
Ma se questo è il rischio, perché non proporre una seria procedura di monitoraggio, e assegnare ad una istituzione pubblica specifica (il Cnel’) il compito di raccogliere, esaminare, discernere tra i contratti aziendali cosmetici e quelli non cosmetici. E forse sarebbe stato opportuno individuare gli interventi che prevengono i contratti cosmetici, ovvero quali sarebbero questi interventi volti ad accrescere la produttività. Ma i Saggi forse sanno poco di queste cose.
È comprensibile che si siano limitati a chiedere la stabilizzazione delle agevolazioni fiscali sul salario variabile e richiamare in modo “oscuro” e “tra le righe” il rischio che tali agevolazioni vadano a premiare imprese che fanno contratti cosmetici, e quindi distorcono il sistema produttivo. Quindi propongono una cosa, ma al contempo fanno capire che ciò che propongono può essere distorsivo e nulla suggeriscono per evitare che ciò accada, nessuno strumento di controllo e soprattutto nessuna idea, innovativa o meno, circa le azioni da intraprendere per far crescere la produttività. Che poi questa continui a declinare non potrà certo essere una sorpresa.
2. Innovare le relazioni industriali
Ma anche sul tema delle relazioni industriali non sono molto innovativi. In poche righe i Saggi dichiarano che l’obiettivo è quello di migliorarle, perché oggi queste sono fonte di incertezza, divisioni, controversie. E quindi auspicano ciò che da anni tutti sanno e molti dicono, ovvero che “sarebbe opportuno disciplinare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali nel settore privato, dando seguito a quanto già in parte concordato tra le parti sociali e presente in alcuni progetti di legge presentati in Parlamento.”
Anche qui non leggiamo grandi novità, se non un auspicio generale e generico che non entra nel merito delle questioni, ma richiama solo (senza citarlo) un accordo tra le parti sociali del 28 giugno 2011.
Il problema qui sarebbe la certificazione degli iscritti ai sindacati, la soglia di rappresentatività, l’esigibilità dei contratti sottoscritti, il ruolo dei referendum dei lavoratori sugli accordi sottoscritti, ecc., tutte questioni sulle quali dalla nascita della Costituzione si aspetta una legge in merito, e la cui regolamentazione è divenuta indispensabile per la democrazia sindacale e anche per regolare i rapporti tra sindacati e tra questi e le imprese, e le loro associazioni di rappresentanza. Questioni divenute ineludibili, se si vuole fermare la deriva delle relazioni industriali che hanno addirittura condotto, di recente, a richiedere da parte di un sindacato (Cisl) ai lavoratori (non iscritti alla Cisl) in un’ impresa veneta (Pometon) (http://corrieredelveneto.corriere.it/rovigo/notizie/cronaca/2013/30-marzo-2013/integrativo-solo-iscritti-cisl-operai-si-fanno-tessera-212415318977.shtml) di pagare ben 500 euro al sindacato stesso per godere del diritto alla applicazione dell’accordo firmato.
Si ricordi, inoltre, che quell’accordo del 28 giugno 2011 tra le parti sociali è stato dopo poche settimane azzoppato dall’articolo 8 della famigerata legge 148 del governo Berlusconi che ha introdotto il nebuloso termine di “contrattazione di prossimità”, e che consente ai contratti aziendali (firmati da chiunque, anche senza alcuna rappresentatività) di derogare non solo dai contratti nazionali, ma addirittura dalle Leggi dello Stato approvate dal Parlamento.
Non manca il tema della partecipazione dei lavoratori all’impresa, tra le proposte dei Saggi. “[…] sarebbe opportuno intervenire sul tema della partecipazione dei lavoratori nell’impresa. Si potrebbe partire dall’estensione dell’ambito di applicazione dei diritti di informazione e consultazione, integrandoli con forme ulteriori di partecipazione, compreso l’azionariato dei lavoratori (eventualmente con un incentivo fiscale) e introducendo forme più avanzate di bilateralità nella gestione di istituti del welfare e della formazione”. A parte l’applicazione dei diritti di informazione e consultazione, che è la condizione minima delle relazioni industriali (se le imprese neppure informano, di che cosa stiamo discutendo?), il modello proposto è quello della Cisl: azioni dell’impresa ai lavoratori, come ai managers, che facciano intendere che comunque si perseguono gli stessi obiettivi e gli interessi sono i medesimi (quelli dell’impresa) e il conflitto non ha più ragione di essere. Inoltre la bilateralità, che è così utile ai fini della riduzione del ruolo pubblico nel welfare a favore del welfare privato ed è anche redditizia (per gli enti di formazione) nella gestione della formazione dei lavoratori, sempre naturalmente in un’ottica partecipativa, ma delegata, mai diretta. Anche in questo caso, cose non nuove, tutte contenute nell’accordo sulla produttività del 21 novembre 2012, con l’aggiunta che l’azionariato potrebbe anche in tal caso essere realizzato con agevolazioni fiscali, a carico dei contribuenti ovviamente, che poi sono sempre i lavoratori dipendenti che (questi di sicuro) pagano alla fonte le imposte sul salario. Un modo di certo “intelligente” per fare pagare ai lavoratori stessi la quota di incentivo del salario variabile che ricevono sotto forma di azioni dell’impresa.
3. Conclusione
In conclusione, a quanto pare i suggerimenti non si discostano (quasi) per nulla da quanto espresso nell’accordo sulla produttività del 21 novembre 2012, così come ribadiscono implicitamente la validità del decreto ministeriale del 22 gennaio 2013 con il quale si stabiliscono le modalità di attuazione dello strumento di incentivazione del salario di produttività a livello d’impresa via detassazione. I Saggi riaffermano la necessità, richiamandone l’esigenza di stabilizzazione, di tale meccanismo.
Ribadiamo qui quali possano essere gli effetti distorsivi e le debolezze di un meccanismo di incentivazione dei premi variabili a livello d’impresa basato sull’agevolazione fiscale.
Primo punto. L’agevolazione fiscale implica un utilizzo di risorse pubbliche, più o meno oneroso. Recentemente il DPCM del 22 gennaio 2013 ha fornito attuazione a quanto previsto dalla Legge 24 dicembre 2012, n.228, prevedendo, per il biennio 2014-2015, 800 milioni di euro di risorse così suddivise per sostenere lo strumento della detassazione a vantaggio degli accordi di secondo livello su salari di produttività: 600 milioni per il 2014 e 200 per il 2015. Per quanto le risorse sembrino scarse, se banalmente confrontate con l’ammontare degli oneri sociali versati ogni anno da lavoratori e datori di lavoro, circa 200 maliardi di euro annui, l’impegno di 1,75 miliardi di euro su un triennio che si configura di ulteriore recessione per l’Italia, non è così esiguo e ci si può interrogare sulla possibilità che tali risorse potessero essere impegnate in altro modo. La stabilizzazione di tale meccanismo implica anche una “stabilizzazione” dell’ammontare delle risorse pubbliche erogate per sostenere tale meccanismo.
Secondo punto. Siamo di fronte ad un intervento che forse avrà qualche effetto sulla diffusione della contrattazione di secondo livello, ma data l’esperienza passata, con ogni probabilità non produrrà alcun effetto sulla produttività, incentivando, al contrario, la diffusione di una pletora di contratti “cosmetici”, stipulati semplicemente per godere dei vantaggi fiscali senza alcun obiettivo di incremento della produttività.
Terzo punto. La stabilizzazione del meccanismo non è affatto detto che riduca gli effetti distorsivi derivanti dall’incertezza che negli ultimi anni hanno riguardato lo strumento della decontribuzione prima e detassazione poi per incentivare la contrattazione di secondo livello sul salario variabile. La stabilizzazione implica un’allocazione di risorse pubbliche non trascurabile su di un meccanismo che ha mostrato negli anni scarsi effetti: anche in presenza di regime fiscale agevolato e di un’elevata diffusione di accordi di secondo livello non si è registrato alcun incremento di produttività in Italia. Sarebbe forse opportuno effettuare analisi conoscitive dell’esistente per ripensare eventuali strumenti di incentivazione e per riconfigurare il salario di produttività in termini di salario di partecipazione. Inoltre, richiamiamo qui l’esigenza di monitoraggio sui premi variabili, poiché la stabilizzazione del meccanismo suggerita dai Saggi implica un impiego di risorse pubbliche che si prefigura consistente e duraturo.
Quarto punto. All’esigenza di monitoraggio richiamata sopra si lega la necessità di valutare l’impatto della politica pubblica di incentivazione prevista. Occorre superare il costume di realizzare politiche pubbliche disgiunte da meccanismi di valutazione. In questo ambito non possiamo che ribadire come il salario variabile, a nostro avviso, non è “lo” strumento per indurre incrementi di produttività, ma solo “uno” degli elementi che possono accompagnare le strategie di innovazione organizzativa e tecnologica d’impresa al fine di creare le condizioni per incrementi nella produttività.
Se applicato come è pensato dall’accordo del novembre 2012 e confermato dai Saggi, è unicamente un modo per trasformare una parte del salario da certo ad incerto, di immettere più flessibilità salariale verso il basso, in cambio di una riduzione del cuneo fiscale pagato peraltro sulla fiscalità generale.