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Le ragioni a favore dei sussidi a chi non lavora

L’Italia è il meno generoso tra i paesi Ocse nella spesa per i sussidi di inoccupazione e disoccupazione. Così i giovani restano del tutto scoperti. Un aumento dei sussidi sarebbe utile anche per la crescita e contro il sommerso

A oggi, l’Italia è, fra i paesi Ocse, quello meno generoso nell’erogazione di sussidi di inoccupazione e di disoccupazione. Su fonte Inps, si rileva che la spesa pubblica per le politiche del lavoro (attive e passive)[1] ha riguardato in Italia, negli ultimi 15 anni, una quota in percentuale del Pil sempre al di sotto dell’1,5% e decrescente nel tempo, a fronte di una tendenza di segno contrario nei maggiori paesi Ocse. Lo scenario peggiora notevolmente se si considerano i trasferimenti pubblici i cui destinatari sono individui di età compresa fra i 20 e i 30 anni. In altri termini, le giovani generazioni non solo entrano in un mercato del lavoro nel quale, nella migliore delle ipotesi, il contratto di lavoro è a tempo determinato (se non irregolare), ma, in caso di mancato rinnovo del contratto, non hanno benefici da parte dello Stato, potendo contare sui soli trasferimenti dalle proprie famiglie. La Banca d’Italia stima, a riguardo, che soprattutto per effetto della crescita della spesa pubblica (e del debito pubblico) fra la seconda metà degli anni settanta e il 1995, i nati fra il 1940 e il 1950 sono gli individui che maggiormente hanno beneficiato di trasferimenti pubblici, principalmente sotto forma di sussidi di disoccupazione e pensioni. Utilizzando la convenzione secondo la quale fra una generazione e la successiva intercorrono 25 anni, risulta che delle tre ultime generazioni, quella dei nati dopo il 1970 è nella condizione peggiore, sia per quanto attiene alla probabilità di trovare lavoro, sia per quanto attiene alla quota di spesa pubblica a suo beneficio. A fronte dell’esistenza, particolarmente in Italia, di una preoccupante e sempre più allarmante “questione giovanile”, il governo Berlusconi è stato completamente inerte. E non è un caso che, nonostante in Europa ci suggeriscano di potenziare gli ammortizzatori sociali, la legge di stabilità recentemente approvata non ne fa menzione.

La convinzione dominante si basa sull’idea secondo la quale l’erogazione di sussidi genera effetti macroeconomici indesiderati, per l’operare di due meccanismi. In primo luogo, si ritiene che a fronte della percezione di redditi non da lavoro, gli inoccupati e i disoccupati reagiscano riducendo il tempo dedicato all’attività di ricerca di lavoro e, dunque, accrescendo la popolazione inattiva. In secondo luogo, si ritiene che l’erogazione di sussidi riduca la produttività, dal momento che i lavoratori occupati, sapendo che, in caso di licenziamento, disporranno comunque di un reddito erogato dallo Stato, avranno maggiore incentivo a lavorare meno. Si può, per contro, argomentare che l’ampliamento delle ‘reti di protezione sociale’ – oltre a costituire un dispositivo per la coesione sociale e il contenimento della conflittualità – ha effetti positivi sulla crescita economica, soprattutto mediante l’azione di contrasto che esse generano nei confronti dell’economia sommersa. Le ultime rilevazioni Istat registrano che, a fronte di un modesto declino dell’incidenza del sommerso sul Pil nei primi anni duemila (dal 19.7% del 2001 al 17.2% del 2007), l’ultimo biennio è stato caratterizzato da un nuovo aumento delle attività irregolari, coinvolgendo oltre tre milioni di lavoratori. L’incidenza del lavoro nero sul Pil nel Sud è pari al 18.3%, a fronte dell’11.8% nel Centro-Nord. Non vi è dubbio che l’espansione dell’economia sommersa – non solo in Italia – costituisce un ulteriore esito della grande recessione, per almeno due ragioni. In primo luogo, l’aumento della disoccupazione e il calo dei salari nei settori regolari dell’economia incentivano un numero crescente di individui (soprattutto giovani) a offrire le proprie prestazioni lavorative nel settore irregolare. In secondo luogo, la riduzione dei margini di profitto delle imprese può spingerle a collocarsi in segmenti irregolari del mercato, per garantirsi la sopravvivenza attraverso la compressione dei costi di produzione – e dei salari innanzitutto – in violazione della normativa vigente.

Gli effetti espansivi di politiche di potenziamento degli ammortizzatori sociali possono generarsi per l’operare dei seguenti meccanismi.

1) L’erogazione di sussidi di disoccupazione accresce i consumi, dunque la domanda aggregata e l’occupazione. La crescita dell’occupazione rafforza il potere contrattuale dei lavoratori, traducendosi in un aumento dei salari. Fermo restando il salario corrisposto nell’economia irregolare, ciò determina un aumento dei differenziali salariali nei due settori, con il risultato ragionevolmente prevedibile di un aumento dell’offerta di lavoro nel settore regolare (e la contestuale riduzione dell’offerta di lavoro nel sommerso).

2) L’aumento dei sussidi disincentiva l’offerta irregolare di lavoro dal momento che accresce il salario di riserva, ovvero il salario minimo al quale ciascun individuo è disposto a lavorare. Ciò consente di rendere più accurata l’attività di ricerca del lavoro e scoraggia la collocazione dei lavoratori nel settore irregolare. Si consideri che, soprattutto nel Mezzogiorno, le prime offerte di posti di lavoro che giungono agli inoccupati (anche con elevato grado di scolarizzazione) sono offerte con rapporti di lavoro irregolari. Beneficiando di indennità di inoccupazione, questi individui hanno maggiore possibilità di rifiutarle, potendo attendere occasioni di lavoro più coerenti con le loro competenze e soprattutto regolari.

3) L’aumento dei sussidi limita l’erosione dei risparmi e, per questa via, consente maggiori disponibilità di fondi per investimenti. Dal momento che solo le imprese regolari possono accedervi, vi è da attendersi – anche in questo caso – un aumento dell’occupazione nell’economia regolare. Vi è di più. Per quanto attiene agli effetti dei sussidi sulla produttività del lavoro, la linea di policy qui proposta risiede su un meccanismo di tipo ‘smithiano’, così sintetizzabile. In quanto “la divisione del lavoro è limitata dall’ampiezza del mercato” e la divisione del lavoro accresce la produttività, l’aumento della spesa pubblica (qui sotto forma di estensione delle reti di protezione sociale) – proprio perché incide positivamente sull’“ampiezza del mercato” – esercita effetti positivi sulla produttività del lavoro e, dunque, sul tasso di crescita. Occorre inoltre considerare che una parte dell’economia sommersa è in rapporti di complementarietà con l’economia regolare: ovvero imprese regolari riescono a ottenere profitti anche grazie al fatto che acquistano prodotti intermedi a basso costo da imprese irregolari. Ciò accade fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, soprattutto tramite esternalizzazioni, le imprese formalmente regolari riescono a approvvigionarsi a più bassi prezzi di prodotti intermedi; il che consente loro di ridurre i costi di produzione, acquisendo quote di mercato a danno delle potenziali concorrenti, e soprattutto delle imprese concorrenti formalmente e sostanzialmente regolari. In secondo luogo, data l’inesistenza di vincoli di orario di lavoro nell’economia sommersa, le imprese che operano in quel contesto riescono a ottenere ritmi di produzione superiori alle imprese che fronteggiano tali vincoli e, dunque, possono produrre in tempi più brevi e consentire alle imprese formalmente regolari di vendere prima delle proprie concorrenti, acquisendo – anche per questa via – quote di mercato e profitti.

In una condizione di questo tipo, azioni di contrasto al sommerso rendono più difficile per le imprese regolari competere attraverso la compressione dei costi (e dei salari in primo luogo). Il che costituisce un incentivo a competere innovando, dando luogo a una potenziale circolo virtuoso, stando al quale la crescita della domanda aggregata traina le innovazioni. Secondo questo meccanismo, l’erogazione di sussidi di disoccupazione ha anche effetti espansivi ‘dal lato dell’offerta’. Per quanto riguarda la copertura finanziaria di provvedimenti finalizzati all’ampliamento delle reti di protezione sociale, si può partire dalla constatazione stando alla quale l’Italia è il Paese nel quale l’indice di Gini dei redditi di mercato è cresciuto di più, essendo oggi il Paese con la maggiore diseguaglianza distributiva fra i principali Paesi Ocse [2].Come rilevato dalla Banca d’Italia, il 10% delle famiglie più ricche possiede circa il 45% della ricchezza totale. Nell’ipotesi minima, considerando una platea di circa 5.000 individui potenzialmente destinatari di benefici, sarebbe sufficiente un’imposta addizionale del solo 1% sui patrimoni delle famiglie con redditi più elevati per raccogliere entrate di ammontare tale da consentire l’erogazione di un sussidio di 800 euro mensili per almeno un anno[3].

[1] Le c.d. politiche attive del lavoro riguardano le azioni finalizzate alla formazione, la riqualificazione, l’orientamento, l’alternanza scuola/lavoro, i tirocini. Le c.d. politiche passive sono finalizzate al sostegno dei redditi, mediante – in particolare – il prepensionamento, la cassa integrazione guadagni, l’indennità di disoccupazione, l’indennità di mobilità e i contratti di solidarietà.

[2] Si veda, fra gli altri,www.economiaepolitica.it.

[3] Per un approfondimento sulle fonti di finanziamento per la realizzazione di politiche redistributive si rinvia a www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Quanto-si-puo-incassare-con-la-patrimoniale.