Non sarà un vaccino a liberarci dai lasciti dell’emergenza Covid. E non sarà la vecchia ricetta fallimentare degli sgravi contributivi a rilanciare economia e lavoro. Alcune proposte della Rete della Conoscenza: reddito di formazione, scuola e università gratuite, tasse su grandi patrimoni e multinazionali del web.
Dallo scorso marzo il mondo è sospeso in una bolla di incertezza e attesa: si aspetta il vaccino, si aspettano le prossime restrizioni, si aspettano i sussidi, ci si chiede se saranno sufficienti, si prova a capire per quanto ancora si dovrà andare avanti così. La seconda ondata è riuscita a coglierci nuovamente impreparati.
E i dati ce lo dicono già con chiarezza: saranno i giovani a pagare più di tutti le conseguenze di questa crisi. Chi è nato negli anni Novanta avrà visto prima dei suoi trent’anni già due “crisi del secolo”: dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime del 2007-2008 e la stagione di austerity che ne seguì, ci troviamo oggi sull’orlo di una crisi nuova, potenzialmente più disastrosa, di cui stiamo già iniziando a saggiare le conseguenze. Nel corso dei due mesi di lockdown primaverile tra i giovani under 34 si è registrata una perdita complessiva di 303 mila posti di lavoro (dati INAPP) con un trend in calo anche nei mesi successivi. A settembre 2020 gli occupati tra i 15 e i 24 anni calano del 7,6% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente; gli occupati tra i 25 e i 34 anni calano del 6,1%, mentre nella stessa fascia d’età i disoccupati aumentano del 5,4% e gli inattivi del 7,1% (sempre rispetto al 2019).
Intanto le classi di età più avanzate registrano un trend in crescita (soprattutto dovuto alla componente demografica), mentre quelle centrali (35-49), anch’esse colpite dai mesi di lockdown, hanno recuperato complessivamente 100 mila posti di lavoro (ISTAT). Queste asimmetrie non sono casuali, ma frutto di anni di deregolamentazione del mercato del lavoro e di progressiva precarizzazione delle forme contrattuali, con politiche che hanno colpito soprattutto i più giovani.
Uno degli slogan più in voga durante il lockdown era quello apparso sui palazzi di Santiago de Chile lo scorso anno: “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. Una normalità, quella prima del Covid, fatta soprattutto per i giovani di contratti a chiamata, part time involontario, lavoro stagionale, lavoro nero, emigrazione, povertà. Davanti a questa situazione le risposte emergenziali non bastano: è necessario prendere scelte coraggiose, che rappresentino una vera e propria inversione di rotta rispetto al passato. Non è sufficiente aggrapparsi ai finanziamenti del Recovery Fund – sui quali pure è necessario dare battaglia, perché non finiscano in larga parte nelle tasche delle imprese -, serve invece ragionare su quali misure strutturali si possano mettere in campo per redistribuire la ricchezza e combattere le diseguaglianze sociali.
Reddito incondizionato per decidere sulle proprie vite
Uno dei meriti delle misure messe in campo dallo Stato nel corso del lockdown primaverile è stato quello di evidenziare alcuni dei limiti degli strumenti ordinari: è il caso ad esempio del reddito di emergenza, varato sì per rispondere ad una situazione non prevedibile che ha lasciato decine di migliaia di lavoratori senza entrate, ma che ha anche fatto emergere come il reddito di cittadinanza non rappresenti uno strumento sufficiente né per il contrasto alla povertà né, tantomeno, in ottica emancipatoria. Non si tratta solo di un ampliamento ai singoli, ma soprattutto a tutta una serie di categorie che hanno avuto la possibilità per la prima volta di accedere ad uno strumento di sostegno al reddito, per quanto anche a prescindere dal Covid non vivessero una situazione economicamente positiva. Se il reddito di cittadinanza è stato introdotto sotto la retorica dell’abolizione della povertà, un anno dopo possiamo dire con sufficiente certezza che quest’obiettivo non è stato raggiunto, e non solo per colpa del Covid. E una delle ragioni sta proprio nella distanza del Reddito di cittadinanza made in Italy da quello che viene tradizionalmente definito reddito di cittadinanza: la misura italiana è infatti priva di due delle sue caratteristiche fondamentali, l’incondizionalità e l’universalità. Il Reddito di cittadinanza, come traspare tra l’altro dalle dichiarazioni alla stampa di diversi esponenti della maggioranza di governo, viene interpretato più che altro come uno strumento di inserimento nel mercato del lavoro. Al netto degli enormi limiti dimostrati in questo senso, è necessario fare un passo indietro. È giusto che questa sia la funzione del Reddito? Insomma, è davvero questo il Reddito di cui abbiamo bisogno? Se riconosciamo come un problema il fatto che la mobilità sociale nel nostro Paese sia del tutto bloccata, se vogliamo liberarci realmente dal ricatto della precarietà, è chiaro che una misura di questo tipo non possa essere sufficiente e che serve immaginare invece tutta un’altra forma di Reddito, a partire da due elementi irrinunciabili: l’incondizionalità e l’elargizione su base individuale. Nel momento in cui la precarietà e l’instabilità la fanno da padrone, introdurre strumenti che si sleghino dalla concezione puramente familistica che caratterizza il nostro sistema welfaristico è sempre più urgente. Lo dimostrano i dati sull’età a cui si va a vivere da soli (31 anni in Italia, 26 di media europea), ma anche l’incidenza del dato sui nuovi poveri tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni, in fortissima crescita rispetto agli anni precedenti.
Reddito incondizionato e individuale, dunque, non solo per coloro i quali si trovano al di sotto della soglia di povertà, ma da ragionare per una platea ben più ampia, che possa declinarsi in diverse forme – come quella del Reddito di formazione per le studentesse e gli studenti – a partire dai bisogni delle nuove generazioni, ma che non veda discrimini anagrafici: un reddito che sia davvero uno strumento per decidere sulle proprie vite e liberarsi dai ricatti.
Diritti universali, per ridare dignità al lavoro contro la precarietà esistenziale
Non serviva una pandemia per rendere palese quanto oggi il mondo del lavoro sia teatro di ingiustizie profonde, non frutto del caso ma di precise scelte politiche susseguitesi negli ultimi decenni. La precarizzazione ha assunto confini ben più ampi di quelli della sola durata del contratto (quando un contratto c’è), riguardando la garanzia di diritti e tutele e la certezza che un lavoro potesse assicurare una vita degna. La flessibilità è diventata un elemento strutturale, utile a livellare i salari verso il basso, negare le tutele più basilari e massimizzare i profitti. Così come il lavoro sottopagato o gratuito, spesso sotto forma di tirocini non retribuiti, o l’apprendistato come strumento di risparmio per le aziende.
Se per gli under 35 la precarietà è diventata l’unica cifra del mondo del lavoro, non sono soltanto i giovani a vivere di incertezze, diritti negati, salari da fame, disoccupazione, sfruttamento. Ma per chi è entrato nel mondo del lavoro – o prova a farlo – negli ultimi dieci/quindici anni, tutto questo è la normalità, è l’unico lavoro che si sia mai visto.
Nel testo della legge di bilancio 2021 si legge l’ennesima riproposizione di una ricetta fallimentare, quella degli sgravi contributivi. Sgravi del 100% per un periodo massimo di 36 mesi (48 per le regioni del Sud), con una clausola anti licenziamento di 9 mesi, per chi assume under 35 con un contratto a tutele crescenti. Quella della decontribuzione è stata una strada scelta a più riprese dagli ultimi governi, ma i dati relativi all’andamento delle assunzioni evidenziano come non abbia sortito effetti positivi sull’occupazione stabile, soprattutto in assenza delle necessarie condizionalità. Per rilanciare l’occupazione giovanile si deve ridare dignità al lavoro, combattendo una guerra contro la precarietà che parta dal riconoscimento universale dei diritti fondamentali, ed è necessaria una politica industriale e dello sviluppo che sappia cogliere le priorità per il futuro, senza limitarsi alle contingenze. Il futuro dei giovani, delle donne, il rilancio del Sud non può essere affidato ai privati attraverso la politica degli incentivi: serve invece un ruolo forte dello Stato in economia, nella definizione dei settori strategici, nella gestione delle risorse, nella creazione di posti di lavoro, in termini ben maggiori di quelli previsti dalla legge di bilancio sulle assunzioni nella P.A.
Serve ripensare complessivamente il modello produttivo, rimettendo al centro le persone e il pianeta e non i profitti, creando occupazione di qualità a partire dalla riconversione ecologica e dalla redistribuzione dell’orario di lavoro.
E non si tratta di una battaglia che riguarda solo una generazione.
Istruzione gratuita per il futuro del Paese
L’Italia si trova al 36° posto tra i 37 paesi OCSE per percentuale di laureati tra i 25 e 34 anni, mentre dal lato della scuola la dispersione scolastica è pari al 15%, con dati inquietanti se si guardano le singole regioni (come la Sicilia dove si raggiunge il 24%). Una situazione nazionale così grave in merito ai livelli di istruzione del Paese vede tra le maggiori cause quella di ordine economico: molte famiglie e molti studenti e studentesse, semplicemente, non possono permetterselo. Il combinato dell’emergenza sanitaria e della crisi economica da essa scaturita rischia nel prossimo futuro di aggravare ulteriormente la situazione.
Scuole, Università e filiera formativa in generale – dall’asilo nido ai percorsi post laurea – come istituzioni pubbliche devono perseguire una serie di obiettivi fondamentali per la società moderna. Il primo è certamente quello di permettere ad ogni individuo di decidere sul proprio presente e per il proprio futuro, per essere strumento per costruire una società consapevole. Il secondo obiettivo, di pari importanza, deve essere quello di riduzione delle disuguaglianze: eliminare le differenze socioeconomiche delle famiglie di provenienza. Il terzo deve essere quello di incarnare il ruolo di motore di innovazione e sviluppo, tecnologico, sociale e democratico, per costruire un modello di sviluppo ecologicamente e socialmente sostenibile.
Per questi motivi la gratuità e l’accessibilità dell’istruzione devono essere delle priorità urgenti per il nostro Paese, per uscire prima e meglio dalla crisi innescata dalla pandemia, e sono obiettivi concreti e raggiungibili attraverso un diverso uso delle risorse pubbliche e con una riforma della tassazione in senso progressivo, che quindi redistribuisca la ricchezza e consenta forti investimenti da parte dello Stato in quelle che devono essere le politiche strategiche per il prossimo futuro.
Non ci sono soldi?
Per finanziare tutto questo servono soldi. E i soldi ci sono, o si possono recuperare. Non solo tagliando da una serie di settori – quello bellico, ad esempio – ma anche liberando la spesa sociale dai vincoli di bilancio (ad oggi solo sospesi) e dal diktat del debito, e generando maggiori entrate per le casse dello Stato.
Nel corso della pandemia i 40 miliardari italiani hanno visto il loro patrimonio crescere del 31%, attestandosi sui 165 miliardi di euro. Attaccare la rendita, i grandi patrimoni, i monopoli, le multinazionali, le aziende inquinanti e le corporations del web non è solo una tra le tante opzioni: è la strada da praticare. Se ne stanno rendendo conto i governi di altri Paesi, che per fronteggiare la crisi dovuta al Covid hanno varato delle misure che vanno in questa direzione, mentre in Italia sembra essere ancora un tabù. Un intervento coraggioso sulla fiscalità generale, che miri davvero a redistribuire le ricchezze per garantire diritti e benessere alla popolazione, è tuttavia sempre più urgente. E l’assenza di qualsiasi indirizzo in questa direzione nella legge di bilancio non è un dato positivo.
Non basterà un vaccino per evitare le conseguenze disastrose della crisi post pandemia. Reddito, lavoro, istruzione, redistribuzione delle ricchezze: tenere ben saldi questi pilastri è fondamentale se non vogliamo solo uscire da questa crisi, ma soprattutto uscirne migliori.