Da Eni a Poste e a Finmeccanica: il rinnovo dei vertici delle aziende partecipate ancora una volta rivela l’utilizzo di criteri meramente politici
Nel discutere della qualità delle nomine appena decise dal governo per i nuovi vertici delle società controllate dallo Stato, si dovrebbe in generale capire secondo quali criteri esse vengono fatte o dovrebbero esserlo e quali possibili differenze esistano nel caso tra i due citati poli di riferimento.
Con quali criteri effettuare le nomine ?
Se si vanno intanto a consultare i classici manuali di management ovviamente ci si trova scritto che esse sono normalmente decise sulla base delle capacità, competenze, nonché del carattere e della rettitudine dei possibili candidati.
In particolare, dovrebbero essere presi in considerazione, secondo la teoria, i risultati di mercato, economici e finanziari ottenuti. Le nomine non fatte secondo tali regole non sarebbero gradite dal mercato e porterebbero, alla fine, a delle conseguenze negative per la stessa azienda.
Ma, intanto, valutare le prestazioni di un manager secondo i criteri elencati non appare molto semplice; come si definiscano operativamente i risultati è una questione molto complicata teoricamente e praticamente e, tra l’altro, si presenta il problema di come si dovrebbero pesare quelli di breve e quelli di lungo termine, nonché come valutare quanto su di essi abbiano pesato il caso o la fortuna (pensiamo, ad esempio, ai risultati ottenuti negli anni successivi da qualche manager nominato appena prima dello scoppio della crisi del 2008). Poi, in realtà, influenzano le nomine, e in misura molto importante, i giochi di potere che si svolgono dietro le quinte, la forza delle varie cordate, i do ut des tra azionisti e manager ed altri fattori, magari non troppo edificanti, per cui il risultato finale è soggetto a grandi gradi di arbitrio.
Nel caso specifico delle nomine appena effettuate in Italia, il rispetto dei criteri di capacità e competenza dovrebbero essere stati conseguiti, almeno in teoria, per il fatto che il Ministero avrebbe preso le sue decisioni, secondo quanto scrivono i giornali, utilizzando il supporto di alcune primarie società di consulenza specializzate sul tema, naturalmente tutte più o meno anglosassoni. Come è noto, l’inglese è la lingua ufficiale di questo governo e quella anglosassone la supposta cultura di base, sia pure con i panni poi sciacquati in Arno. Naturalmente temiamo invece che la partecipazione di tali esperti sia, come al solito, la foglia di fico che copre criteri molto personalistici.
Trattandosi di nomine pubbliche si dovrebbe comunque poi rispettare una grande trasparenza decisionale, che non vediamo molto in azione in questo caso, mentre ricordiamo anche, come hanno riportato alcuni giornali, che la commissione industria del Senato ha raccomandato di recente che nelle riconferme dei vertici siano anche considerate le ricadute su occupazione, sicurezza sul lavoro ed ambiente portata dall’azione dei vari candidati. Tutti elementi che sarebbero importanti se qualcuno ci facesse poi veramente in qualche modo caso.
Per altro verso, dato che le imprese interessate alle nomine sono anche quotate in Borsa, sarebbe per questo ancora più opportuno informare l’opinione pubblica in maniera adeguata su quello che si sta decidendo; ma anche queste preoccupazioni restano poco soddisfatte.
In realtà, tutta la storia degli ultimi decenni nel nostro paese indica che il criterio preponderante nella scelta dei manager pubblici è, banalmente, di solito, la fedeltà a qualche cordata, politica e/o di qualche altra natura, nonché la forza dei reciproci ricatti. I buoni risultati ottenuti non bastano certo a qualificare un candidato né quelli pessimi a scartarlo; semmai sono dei pretesti per giustificare delle scelte prese sulla base di ben altri criteri. Alla individuazione dei fortunati presiedono poi normalmente tre-quattro persone che si dividono tra di loro il potere di decidere gli incarichi sulla base dei rapporti di forza e delle abilità negoziali presenti in quel momento sul campo.
Alcuni dei casi
Non sembra certo che la presente tornata di nomine si discosti molto da tali tradizionali pratiche. E veniamo quindi al punto. Anche per mancanza di spazio ci occuperemo soltanto di alcune delle persone coinvolte.
Per quanto riguarda la società Leonardo, ex-Finmeccanica, è stato riconfermato alla presidenza Giovanni De Gennaro, mentre il precedente amministratore delegato, Mauro Moretti, è stato sostituito da Alessandro Profumo.
A suo tempo la nomina di De Gennaro non ci era piaciuta molto e tantomeno siamo entusiasti della sua riconferma; nonostante la Cassazione abbia a suo tempo dichiarato la sua innocenza, la sua figura ci appare indissolubilmente legata ai fatti di Genova e della caserma Diaz.
Tantomeno ci sembra debba risultare gradita la sostituzione di Mauro Moretti, atto dovuto dopo la sua pesante condanna in tribunale, con Profumo. Quest’ultimo a suo tempo, come amministratore di Unicredit, aveva portato la banca ad una forsennata campagna di acquisti in giro per il mondo, con le conseguenze negative che si fanno ancora oggi sentire per l’Istituto, che ha, da allora, perso decine di miliardi di euro ed ha dovuto effettuare numerosi ed importanti aumenti di capitale. La sua presenza successiva al Monte dei Paschi presenta poi luci ed ombre. Non si capisce comunque quali competenze egli possieda in un settore, quale quello degli armamenti e dell’aerospazio in cui è presente la Leonardo, che appare molto lontano dai suoi precedenti campi di attività. Ma, naturalmente, ha il grande merito di essere strettamente legato al Pd.
Altrettanto sorprendente ci sembra la cacciata da Poste Italiane di Francesco Caio, che, secondo i criteri aziendalistici, aveva ottenuto risultati di mercato, economici, finanziari, tecnologici, persino sorprendenti, anche se non dimentichiamo che ha portato avanti la privatizzazione dell’organismo a lui affidato; ma in questo caso rispettava diligentemente le consegne. La sua defenestrazione deve essere probabilmente collegata al non avere sempre obbedito agli ordini di Renzi. In particolare egli non si sarebbe impegnato nella cordata per il salvataggio del Mps e avrebbe inoltre ceduto Pioneer ai francesi invece che ad un’entità nazionale che offriva però meno soldi. Sappiamo bene che il presente governo è fatto di patrioti.
Ci si perdoni anche il fatto che non abbiamo gradito la riconferma di Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni, dove sembra che la sua figura sia passata praticamente inosservata. Ma in questo caso le ragioni del rinnovo nella carica appaiono del tutto misteriose.
Chiudiamo comunque con una nota, almeno in parte, positiva. La riconferma di Claudio Descalzi come amministratore delegato sempre dell’Eni era una scelta in teoria in qualche modo obbligata, dati i rilevanti risultati ottenuti durante la sua gestione, svoltasi tra l’altro in un periodo molto difficile e la notevole considerazione di cui egli gode all’estero. Ma non lo ha certo danneggiato la sua relazione con Renzi né, peraltro, il suo coinvolgimento in un procedimento giudiziario in Nigeria. Peraltro, più in generale, il caso nigeriano ci ricorda che sull’Eni persiste l’ombra di una scarsa attenzione alle regole ambientali, in Italia come all’estero.