Le prime misure annunciate da Renzi perseverano nel considerare il problema principale del nostro sistema produttivo quello di poter disporre di manodopera a basso costo e qualifica
Con uno sguardo opportunisticamente rivolto alle prossime elezioni europee, il governo Renzi ieri ha annunciato (non di decisione operativa si tratta) di voler distribuire a partire da maggio, il mese delle elezioni europee, 10 miliardi a 10 milioni di italiani con reddito inferiore ai 25 mila euro lordi l’anno; il che significa voler aumentare di circa 85 euro uno stipendio mensile di circa 1500 euro netti. Si potrebbe anche pensare che questo annuncio dal sapore elettoralistico è sempre meglio del nulla fatto o promesso dal passato governo Letta o dei clamorosi danni operati dal governo Monti e, prima ancora, da quello Berlusconi; ma così si perderebbe di vista che, protraendosi la crisi epocale ormai esplosa circa sette anni fa, diventa sempre più necessario e impellente sapersi rivolgere non solo agli italiani e al nostro sistema economico-sociale, ma anche all’Europa con un approccio più fattivamente e strutturalmente adeguato alla crescente gravità delle circostanze.
Intanto va precisato che da subito – cioè con decreti legge immediatamente operativi – sono state decise solo misure tese a rendere sempre più flessibile l’uso della forza lavoro a favore delle imprese: possibilità del datore di lavoro di non specificare le motivazioni tecnico-produttive-organizzative per interrompere un contratto di lavoro a termine nell’intero periodo dei 36 mesi; eliminata ogni parvenza d’interruzione tra un contratto di lavoro a termine e quello successivo; eliminato l’obbligo di confermare in servizio almeno il 30% degli apprendisti dipendenti prima di poterne assumere di nuovi alle condizioni di favore che essi consentono; si riduce la retribuzione minima per gli apprendisti riferita alle ore di formazione.
Queste misure immediate ripropongono incentivi alle imprese, perseverando nella illogica politica che ci ha portato al declino negli ultimi vent’anni. La sua essenza è che il problema principale del nostro sistema produttivo sarebbe quello di poter disporre di manodopera intercambiabile e a basso costo cioè di bassa qualifica; invece, il suo problema strutturale è la difficoltà di innovarsi, il che richiederebbe la formazione e l’assunzione a tempo indeterminato di personale qualificato per poter competere sulla qualità della produzione e non sull’illusione di battere sul prezzo le merci esportate dai paesi emergenti. Proseguendo su questa strada, saremo sempre più lontani anche dagli standard sociali e civili dagli altri paesi europei con i quali dovremmo poter interloquire alla pari sulle modalità della costruzione comunitaria.
Gli sgravi Irpef che partiranno da maggio comunque escluderanno del tutto i pensionati che hanno assegni anche inferiori ai 1500 euro mensili; così pure tutti coloro che, guadagnando ancora meno o essendo disoccupati, non avranno la “capienza fiscale” per poter usufruire dello sgravio Irpef. Prosegue dunque, anzi si accentua, la politica di allontanare in basso i redditi degli anziani, dei precari e dei disoccupati da quelli della popolazione attiva che è stata avviata con la lunga serie delle riforme previdenziali e degli ammortizzatori sociali dell’ultimo ventennio. In tal modo, oltre a creare una situazione di ulteriore disagio economico per coloro che – come gli anziani – si trovano in una fase di vita più bisognosa di cure e assistenza, si intacca ulteriormente il patto tra generazioni che sostanzia la coesione sociale. D’altra parte, come oramai accade da anni, i soldi tolti al sistema previdenziale sono pari ad una mega finanziaria annuale: dopo le riforme del 1992 e 1995, dal 1998 in poi, il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali nette è attivo; l’ultimo anno di cui si hanno i dati, il saldo attivo corrente è stato di 24 miliardi di euro (sei volte il gettito dell’Imu sulla prima casa). Ma questo prelievo a carico del sistema previdenziale non favorisce i giovani, serve invece a ripianare gli effetti sui bilanci pubblici generati dalla crisi e dalle politiche controproducenti messe in atto per superarla (e, in particolare, per ripianare le perdite degli istituti finanziari). Dunque, ai giovani non pensano molto nemmeno le decisioni prese o annunciate ieri dal governo Renzi che, invece, prevede – sempre a maggio – uno sgravio Irap per le imprese.
Ma una questione di fondo in rapporto alla quale vanno valutate le decisioni del governo Renzi è quanto esse possano incidere sulla possibilità di stimolare la ripresa economica. Ancora non è chiaro come i famosi 10 miliardi verranno finanziati, ma si parla essenzialmente della diminuzione di spesa tramite la spending review, una rimodulazione delle entrate fiscali sulle rendite finanziarie e la possibilità di aumentare il deficit sperando che quello tendenziale non abbia già raggiunto il fatidico 3%. Quand’anche i primi due canali di finanziamento fossero percorribili ( sul terzo c’è poco da sperare), si tratterebbe comunque di togliere dal sistema economico da un lato ciò che si concede dall’altra. L’effetto complessivo di stimolo sulla crescita sarebbe irrisorio. E qui si ritorna ai vincoli comunitari e alla necessità di uscire dalla visione “euroconformista” che fa il paio con quella “euroscettica”. Mentre quest’ultima vagheggia immediati ritorni a pericolosi nazionalismi, la prima – cui aderisce il governo – ha già prodotto effetti deleteri per la costruzione dell’Europa e se non si afferma una inversione di rotta a livello comunitario e nei singoli paesi europei, il risultato ultimo sarà lo stesso cui vogliono arrivare subito gli euroscettici.