Gates, Buffet, Skoll, Bloomberg, Rockfeller, Turner lanciano l’iniziativa Giving Pledge: puó “l’impegno a donare” dei miliardari filantropi aiutare il mondo?
Quaranta tra i miliardari più ricchi degli Stati uniti d’America si sono recentemente impegnati a donare la maggior parte del loro patrimonio per scopi filantropici. Mossi dall’ambizione di ispirare altri ‘paperoni’ in tutto il mondo e stimolare una vera e propria ondata di solidarietà, hanno costituito il cosiddetto Giving Pledge (L’impegno a donare), un’iniziativa filantropica che esemplifica la visione a lungo termine di questa nuova generazione di super-ricchi. Lanciato da Bill Gates e Warren Buffett, il gruppo del Giving Pledge include – tra gli altri – il fondatore di eBay Jeff Skoll, il sindaco di New York Michael Bloomberg, la famiglia Rockfeller, e il magnate dei media Ted Turner. La notizia, lanciata all’inizio di agosto, ha fatto il giro del mondo, suscitando un ampio dibattito anche in Europa, dove le iniziative filantropiche di questa portata sono senza precedenti. A tutti gli effetti, il Giving Pledge è il progetto filantropico più mastodontico mai realizzata nella storia, con un capitale complessivo che supera di gran lunga i volumi finanziari di uno stato di medie dimensioni. Inoltre, il Giving Pledge è stato lanciato nel mezzo della più grave crisi economica dai tempi della Grande Depressione e quindi si carica di un forte messaggio simbolico: il grande capitale può contribuire a rendere il mondo un posto migliore per tutti.
Nella migliore delle ipotesi, il Giving Pledge fornirà nuove risorse finanziarie per le opere caritatevoli internazionali, per le solite organizzazioni non governative più famose, per qualche gruppo di pressione ed un manipolo di think tanks compiacenti. I filantrocapitalisti verranno intervistati dalle riviste più patinate, spiegheranno come le loro esperienze imprenditoriali di successo possono essere messe al servizio di cause sociali, alcune celebrità si aggiungeranno al coro ed al gossip, qualche cena di gala verrà celebrata in giro per il mondo e, forse, uno di questi filantrocapitalisti potrebbe addirittura ritrovarsi a vincere un premio ‘scandinavo’. I paesi poveri verranno invasi da consulenti occidentali e orde di tecnocrati impartiranno corsi di formazione nei villaggi rurali per insegnare a questa povera gente come sconfiggere la povertà con qualche grafico, una lavagna mobile e modelli di business pensati da qualche accademico creativo. Allo stesso tempo, ai beneficiari finali di questo tsunami di solidarietà sarà concesso di dire poco o nulla sui progetti da finanziarie e le priorità da perseguire, mentre costose conferenze saranno organizzate in alberghi lussuosi e gli immancabili analisti prezzolati diranno che siamo entrati nell’era del capitalismo solidale. Dopo pochi anni tutto tornerà alla normalità, lasciando qualche economista a chiedersi come mai la povertà e le ingiustizie sociali non sono state sconfitte. Come Michael Edwards ha sostenuto nel suo ultimo libro ‘Small Change: perché il business non salverà il mondo‘, l’idea secondo cui la mentalità imprenditoriale può salvare il mondo è un vero e proprio ‘mito’, che serve gli interessi di chi occupa posizioni di potere, e la costante celebrazione di individui ricchi e famosi è una distrazione pericolosa dal duro lavoro quotidiano degli operatori sociali, che cercano di sviluppare soluzioni a lungo termine.
Per tutte queste ragioni credo che se i filantrocapilisti volessero davvero esercitare un impatto positivo, dovrebbero concentrarsi su ciò che conoscono meglio (cioè, il business) invece di colonizzare un territorio a loro non familiare, come quello del lavoro sociale, con il rischio di imporre altre priorità e ordini del giorno. Come fare? Per esempio, cercando di rispondere alle seguenti domande: c’è un modo per ripensare il business in modo che contribuisca direttamente a rendere il mondo un posto migliore? Quali nuovi modelli imprenditoriali si potrebbero applicare allo scopo di promuovere la sostenibilità, i beni comuni e l’uguaglianza, piuttosto che concentrare la ricchezza in poche mani e impoverire i molti?
Immaginate cosa accadrebbe se Microsoft decidesse di abbandonare la propria condizione di monopolista per diventare uno sponsor globale del software libero. Forse ciò potrebbe causare una riduzione dei profitti per l’azienda, ma avrebbe un impatto enorme sull’accesso all’informazione, l’alfabetizzazione e lo sviluppo economico di tutto il mondo. Significherebbe anche che le piccole aziende non verranno più soffocate dal gigante di Seattle, promuovendo così nuovi posti di lavoro, innovazione e libertà, soprattutto nei paesi poveri che pagano milioni di dollari al giorno in licenze alla multinazionale fondata da Bill Gates. Pensate se Warren Buffet convertisse il suo impero finanziario, che è indubbiamente prosperato grazie alla deregolamentazione degli ultimi anni, in fondi di investimento etico a sostegno delle piccole cooperative, delle imprese locali, dei gruppi di microcredito e di altre forme di economia sociale. Migliaia di medi e piccoli investitori seguirebbero il suo esempio, riducendo la quantità di capitale che è a disposizione degli speculatori finanziari. Ciò potrebbe addirittura influenzare le banche e persino le borse, stimolando nuove modalità di investimento su larga scala per iniziative benefiche e sostenibili. Immaginate l’impero mediatico di Bloomberg trasformato in un vero e proprio ‘controllore civico’ dei mercati finanziari, che utilizzi la propria rete globale di analisti ed esperti per promuovere una cultura del risparmio, della condivisione e della finanza etica. Cosa succederebbe se i Rockfeller ed i loro amici facessero pressione sui governi affinché aumentino le tasse per i ricchi (invece di ridurle), combattano l’evasione fiscale (anche i modi legali per eludere il sistema fiscale) e ricostruiscano le reti di sicurezza sociale? Non sarebbe questo il modo migliore per diventare dei veri e propri filantropi e fare del mondo un posto migliore ogni singolo giorno? Questi sono solo alcuni esempi di modi in cui si potrebbero utilizzare le risorse ed il peso politico dei fondatori del Giving Peldge per combattere le ingiustizie del nostro mondo. Irrealistico? Troppo ambizioso? Forse, ma basta leggere i proclami del Giving Pledge per capire che l’ambizione non manca a questi filantrocapitalisti. Puntano a cambiare il mondo, e allora perché non farlo davvero?
*Lorenzo Fioramonti è Senior Visiting Fellow al Centre for Social Investment dell’Università di Heidelberg (Germania) ed insegna politica internazionale all’Università di Bologna. La versione orginale di questo articolo (in inglese) é stata pubblicata su openDemocracy.