Dall’Ocse all’Istat, fioriscono indici alternativi per misurare la qualità reale della vita.
E siamo ancora qua. A parlare di misure di benessere, progresso sociale, sviluppo, sviluppo sostenibile, welfare, well-being con o senza il trattino. Siamo in giro da più di 40 anni, forse anche qualcosa di più, ormai pubblichiamo nelle migliori riviste e simpatizzano per noi, o addirittura fanno parte di noi, importanti premi nobel e grandi istituzioni internazionali un tempo insospettabili. Il messaggio è sempre lo stesso e rivolto alla politica: il modello di sviluppo basato esclusivamente sulla crescita economica non ci porterà al migliore dei mondi, anzi. Cominciate, quindi, per favore, a guardare anche ad altro oltre che al Pil. A ben guardare il messaggio è, più o meno direttamente, rivolto anche agli economisti che hanno legittimato con le teorie neoliberiste le politiche più miopi. Abbiamo proposto di tutto in questi decenni: Pil corretti, Pil verdi, indicatori sintetici, set di indicatori, indicatori di comunità, processi partecipati, cruscotti, mappe, classifiche e chi più ne ha più ne metta. Quelli di noi che stanno avendo maggiore successo sono quelli di destra. Quelli che non importano la società o l’ambiente, l’importante è l’individuo e il suo benessere e la sua felicità, se poi è felice da schiavo fatti suoi. Prima della crisi si parlava e si parlava non solo di noi: si parlava di ambiente, di globalizzazione, di giustizia: l’intero modello era sotto accusa. Con la crisi, politici conservatori come Sarkozy o Cameron hanno intravisto una via di fuga nel nostro lavoro: dove il Pil cresceva troppo poco quale migliore sponda di una vasta letteratura che affossava il Pil sotto molti punti di vista? Dove si è entrati in una profonda recessione, come in Italia, non si parla più di niente perché prima bisogna far tornare a crescere l’economia non importa come, non importa a che prezzo, non importa perché. Quel maledetto numero deve tornare a crescere e poi vedremo. Nel frattempo tutto è legittimo e giustificato.
Forse tutto sommato è anche colpa nostra, dovevamo concentrarci sul modello, proporre un’alternativa e invece ci siamo concentrati sui numeri, sui metodi, abbiamo litigato per le virgole, perdendo di vista il messaggio che era e rimarrà un messaggio culturale e non tecnico. Ed è forse anche per questo che ci sentiamo così lontani dall’obiettivo, i cambiamenti culturali non avvengono dal giorno alla notte e forse sono già in atto e non ce ne accorgiamo. Del resto abbiamo una legge presentata in parlamento, il che non è poco. E la società civile ancora si muove, sono rimasti in pochi a fare indicatori di sviluppo perché oramai su questo terreno sono arrivati i grandi istituti di statistica ma la frontiera della controinformazione, dell’animazione politica culturale non è scomparsa si è solo spostata. Prima si raccoglievano dati più o meno ufficiali e più o meno accessibili e li si usava come pretesto per chiedere di cambiare le politiche, è quello che per esempio ha fatto per tanti anni la campagna Sbilanciamoci! con il QUARS. Ora si è scesi in miniera, e la miniera è il web. I minatori, consegnano, trasformandoli da documenti inaccessibili a preziosissimi archivi organizzati informazioni visualizzate in maniera semplice e intuitiva, montagne di dati: dai beni confiscati, ai migranti sfruttati, alla finanza pubblica c’è di tutto. Nascono così importantissime campagne di controinformazione come The Migrants’ files, Openbudget, Confiscatibene, Monithon. E speriamo sia sempre più difficile ignorarli.