La vittoria dei Talebani coincide con il fallimento della “war on terror ” ma è una vittoria fragile. La dipendenza dall’esterno, un contratto sociale inadeguato ai tempi e la cultura dell’impunità saranno fattori di instabilità sul medio e lungo termine.
“Abbiamo sconfitto l’America”. Sui muri di Kabul, inclusi quelli dell’ex ambasciata degli Stati Uniti evacuata ad agosto, campeggiano gli slogan dei Talebani. Tornati al potere dopo un’offensiva militare che in soli 11 giorni li ha condotti nella capitale, ceduta senza spargimenti di sangue con la fuga dell’ex presidente Ashraf Ghani e l’occupazione dell’Arg, il palazzo presidenziale da cui sventola la bandiera bianca degli studenti coranici con la scritta nera della shahada, la professione di fede islamica.
È stata issata l’11 settembre 2021, in occasione del ventennale dagli attentati alle Torri gemelle di New York e al Pentagono a cui Washington ha risposto con una rappresaglia che ha rovesciato il primo Emirato dei Talebani, responsabili di ospitare al-Qaeda ma non degli attentati. La rappresaglia si è fatta occupazione militare, garantendo la longevità dei Talebani e consegnando loro un obiettivo legittimo per condurre il jihad: le forze di occupazione contro le quali reclutare e fare propaganda. I crimini di guerra delle forze internazionali, il sostegno a una classe politica-rentier corrotta, simbolo di istituzioni fragili e predatorie chiamate democratiche, ha ampliato la distanza tra governo e popolazione.
Senza consenso, legittimità e radicamento sociale, la Repubblica islamica d’Afghanistan è implosa in pochi giorni, dopo un’attenta strategia diplomatica con cui i Talebani hanno siglato patti interni di non belligeranza e accordi regionali di non ostilità. La velocità del collasso istituzionale, sorprendente perfino per i Talebani, ha avuto l’effetto di un cataclisma per istituzioni, politica, economia, società. Gli effetti di questa repentina conquista del potere si vedranno nei prossimi mesi.
Come per il crollo delle Torri gemelle, occorrerà rimuovere le macerie prima di comprendere la portata dei danni. Dentro e fuori l’Afghanistan, intanto, si prendono le misure.
Il 7 settembre i Talebani hanno annunciato il nuovo esecutivo ad interim. Senza Costituzione, senza insediamento formale, riflette una concezione monopolistica del potere e la preoccupazione di cementare il movimento, policentrico per natura, nella difficile transizione tra gruppo armato a partito di governo. Venuto meno l’obiettivo comune, la lotta contro le truppe d’occupazione, il sacro dovere del jihad che porta ricompense religiose e guadagni materiali, c’è da tenere unito il movimento. Vale per la leadership ma anche per i militanti con i sandali ai piedi, a cui andrà fornito un nuovo incentivo. Il mese trascorso dalla conquista di Kabul ha coinciso con la fase di celebrazione della conquista, con l’esaltazione della vittoria definitiva contro le truppe americane, il cui ritiro da onorevole è diventato catastrofico. A Washington contano i 13 marines morti. In Afghanistan i 170 civili uccisi nell’attentato all’aeroporto rivendicato dalla branca locale dello Stato islamico e la famiglia sterminata a Kabul – 10 persone di cui 7 bambini – da un drone americano, il 29 agosto. Si sommano a decine di migliaia di civili morti e feriti a causa di un conflitto presentato come una “guerra giusta”.
A un mese dall’arrivo nella capitale, quello dei Talebani è un governo teocratico, pashtun, di conquista, simbolo di continuità e resilienza del movimento e della sua leadership. Governo tutt’altro che inclusivo, è stato annunciato in poche settimane. Al contrario dei precedenti governi – quello bicefalo di unità nazionale tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah e l’ultimo di compromesso tra i due -, non è il frutto di mesi di trattative e accuse reciproche di brogli, ma l’esito di una veloce spallata militare i cui effetti hanno colto di sorpresa perfino i protagonisti dell’offensiva, alcuni dei quali rimasti a bocca asciutta nella spartizione dei ministeri.
La vittoria dei Talebani è netta e coincide con il fallimento della war on terror degli Stati Uniti e con l’idea di esportare la democrazia con le armi. Ma è una vittoria fragile. Potrebbe rivelarsi illusoria. La “fine della guerra” e la stabilità annunciata dal portavoce del movimento Zabihullah Mujahid potrebbero essere una parentesi. Al fondo, restano troppi nodi irrisolti.
Il governo è ad interim, formula passepartout già usata negli anni Novanta per il primo Emirato. Serve a guadagnare tempo. Internamente, le nomine non hanno soddisfatto tutti, altri dissidi emergeranno in futuro e potrebbe servire riassorbirli attraverso nuovi o differenti incarichi. Ma il carattere temporaneo serve anche a sondare la posizione della comunità internazionale e le reazioni nel Paese. Le une e le altre sono legate e potrebbero condizionare la futura composizione del governo, aprendolo o meno a contributi esterni. Per ora prevale la chiusura.
Sia dentro che fuori dal Paese il messaggio dei Talebani è conciliante a parole, inflessibile negli atti. Contraddittorio, è comunque coerente con la postura degli anni Novanta, mantenuta fino all’ultimo, fino ai giorni concitati del settembre-ottobre 2001 in cui, pur rischiando un attacco, i Talebani invocavano pari dignità con i diplomatici che chiedevano la consegna di Osama bin Laden e ai quali replicavano chiedendo prove o proponendo un processo. Pronti al dialogo, sì, ma senza imposizioni esterne. Così i Talebani, ieri e oggi. Oggi più che ieri affrontano però un dilemma. Se vogliono sopravvivere come movimento politico, devono mantenere purezza ideologica e ortodossia. Se vogliono che sopravviva il sistema politico-istituzionale che governano, devono farsi flessibili, pragmatici, accettare compromessi. Vale ancora di più ora che non c’è più il “nemico lontano” in casa, vero cemento del gruppo in questi anni.
La repentina conquista militare del Paese, che ha sostituito il graduale trasferimento di potere promesso ai partner regionali, ha evidenziato il paradosso che devono affrontare i Talebani. Rivendicano sovranità, ma per uno Stato-rentier. I servizi fondamentali del Paese, a partire da istruzione e sanità, dipendono dai donatori internazionali, l’economia è strutturalmente dipendente dall’esterno, le risorse informali con cui il movimento è sopravvissuto finora sono insufficienti a soddisfare i bisogni statali. Pensare che i Paesi della regione possano sostituirsi, e in tempi brevi, all’Occidente è ingenuo. Servono soldi. E i soldi passano per il riconoscimento del governo.
I Talebani lo invocano. La comunità internazionale, già divisa, prende tempo, inclusi i Paesi maggiormente inclini a chiudere un occhio sullo strumento con cui i turbanti neri hanno conquistato il potere: la violenza. Per ora, sia i Talebani sia la comunità internazionale “approfittano” della gravissima crisi umanitaria in corso per evitare di assumere decisioni politiche difficili. La crisi umanitaria precede la presa del potere dei Talebani, ma la loro spallata l’ha resa più evidente e urgente. Più evidente perché viene meno il conflitto che occultava le condizioni del Paese dietro il fragore delle armi. Più urgente perché le condizioni sono peggiorate con il congelamento dei prestiti e dei fondi della Banca centrale, voluti o sollecitati da Washington. Secondo una previsione macroeconomica del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, se le tendenze attuali dovessero proseguire, a metà del 2022 il 97 per cento della popolazione sarebbe sotto la soglia di povertà. Povertà universale. Oggi, dopo vent’anni di occupazione militare, è al 72 per cento. Sono i benefici della guerra.
I Talebani approfitteranno della crisi umanitaria. Ne faranno occasione per rivendicare riconoscimento e l’apertura di nuovi canali diplomatici. Ma come ha ricordato il 13 settembre il segretario generale dell’Onu alla fine dell’incontro ministeriale sulla crisi afghana, gli aiuti umanitari non posso sostituirsi all’economia. La comunità internazionale approfitterà a sua volta della crisi. Piccole elargizioni finanziarie ora, ridicole di fronte alle risorse destinate in questi anni alla guerra, per lavarsene le mani poi, appena possibile. Chiudendo un dossier che simboleggia una sconfitta clamorosa non solo per gli esportatori di democrazia sulla punta dei fucili, ma anche per i sostenitori del peacebuilding liberale con ambizioni di ingegneria sociale.
Attraversato da dissidi interni, con difficoltà nei rapporti con la comunità internazionale, il movimento dei Talebani dovrà affrontare poi la sfida più importante. Non più – almeno nel breve termine – il conflitto militare, ma il conflitto sociale.
La violenta repressione delle prime manifestazioni in alcune città afghane replica meccanismi difensivi ormai insufficienti a tenere a bada una società demograficamente giovane, consapevole del resto del mondo, con aspettative e ambizioni diverse dal passato. Il monopolio della violenza non basterà a riequilibrare il deficit di consenso e legittimità. L’amnistia, rivolta ai vecchi funzionari e membri del passato regime, nasce dalla consapevolezza di aver bisogno dei quadri, dei funzionari, dei burocrati, molti dei quali già fuori dal Paese.
Ma non tiene conto di due elementi. Il primo è che l’amnistia funziona solo se tiene il sottostante contratto sociale. Quello offerto dai Talebani mima il precedente degli anni Novanta. Sicurezza collettiva in cambio della rinuncia alle libertà personali. Oggi non può funzionare. Il secondo è che, con l’amnistia, i Talebani dicono di voler perdonare tutti. Ma non chiedono perdono per se stessi. L’amnistia per gli altri equivale all’impunità per sé, per quei gravi crimini di guerra presentati come mezzi necessari per un fine più alto, il jihad e la vittoria sugli stranieri. Derubricarli a danni collaterali non servirà a cancellarne il ricordo in chi ne ha sofferto, nei famigliari delle vittime. Solo a prolungare le ragioni dell’instabilità del Paese.