In Italia i lavoratori sono meno protetti che in Francia e Germania. L’accanimento sull’art.18 è inutile e solo simbolico. Il vero problema è la scarsa produttività del sistema
Il Governo ha approvato il testo del disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro da presentare alle Camere. La sostanza delle variazioni apportate all’assetto del mercato è relativamente limitata e non va sempre nel senso di un miglioramento. Salvo alcuni effetti di breve periodo auspicabilmente positivi derivanti dall’introduzione dell’Aspi, l’altra principale modifica, quella dell’art.18 potrebbe portare essenzialmente ad un aumento del contenzioso, peggiorando i rapporti di lavoro. Sembra quasi che le ragioni della riforma siano essenzialmente di natura cosmetica (abbattimento di simboli che denoterebbero l’attuale presunto ingessamento del mercato del lavoro italiano). Una ventata di liberismo, da lungo tempo auspicata dalla grancassa mobilitata dal più becero capitalismo nostrano e stranamente sostenuta e utilizzata in alcuni ambienti accademici, doveva essere il suggello della positiva novità apportata dal governo Monti alla licenziabilità dei lavoratori a tempo indeterminato.
È strano però che questa ripetizione di falsità che accreditano l’idea di lavoratori italiani eccessivamente protetti non regga il confronto dei dati. A parte il fatto che ormai 3/4 dei nuovi lavori sono di carattere temporaneo e assolutamente non protetti, ciò che accomuna l’Italia a pochi altri paesi europei, quella che è stata per anni la stessa giustificazione di questa anomalia, ossia l’esistenza di lavoratori a tempo indeterminato eccessivamente protetti, è infondata. Infatti, l’indice di protezione contro i licenziamenti dei lavoratori permanenti elaborato dall’Ocse è in Italia inferiore da tempo a quello dei nostri principali concorrenti, in primis Francia e Germania (in una scala di crescente protezione, 1,69 contro 2,60 e 2,85, rispettivamente, nel 2008) (cfr. Figura 1).
Figura 1 – Protezione dell’occupazione in alcuni paesi dell’Unione Europea 2008
Fonte: OECD indicators on Employment Protection (Version 2 – Last updated 24-09-2010)
Si sono perciò preferiti target simbolici rispetto ad obiettivi reali, eludendo il principale problema del quale soffre il nostro sistema economico, quello della bassa crescita della produttività. Per ciò che si è appena detto, questo problema non può avere fondamento in una scarsa collaborazione dei lavoratori dovuta alla loro elevata protezione. La scarsa dinamica della produttività non è imputabile a lavoratori fannulloni perché protetti, semplicemente perché la nostra legislazione non protegge i lavoratori più di quanto essi non siano protetti all’estero; anzi, li protegge di meno. Ciò a cui essa va invece imputata è l’incapacità della nostra classe dirigente, sia imprenditori sia politici. I primi hanno seguito strategie aziendali di breve respiro, che sono risultate negative per il nostro sistema economico (scarsa innovazione tecnologica e organizzativa e mancato riposizionamento della specializzazione produttiva). I secondi hanno peggiorato la performance del settore pubblico, contribuendo negativamente ai fattori esterni all’impresa che influenzano la produttività.
Ma il paese sembra avere le energie per rinascere. Si tratta soltanto di individuare le modalità per valorizzarle, anziché farle retrocedere nella spirale che ha operato a partire dagli anni Novanta, per gli effetti prodotti sulle strategie aziendali dalla tregua salariale, prima, e dall’’invenzione’ di soluzioni di ripiego come quella del lavoro temporaneo, nonché per le conseguenze negative della ridotta efficienza del settore pubblico. Partendo da produzioni mature, con limitati incrementi di produttività che ‘giustificano’ una bassa dinamica salariale e, negli intendimenti dell’attuale governo, con liberalizzazioni tendenti a ridurre le presunte incrostazioni del mercato del lavoro, ma che abbassano ulteriormente i salari si riducono ulteriormente le spinte alla crescita della produttività e si rimane confinati entro le nicchie delle produzioni mature.
La ricetta non può dunque essere il liberismo, ma proprio quella di un’appropriata concertazione tra le forze sociali più produttive e il policy maker, criticata invece da Monti in molteplici dichiarazioni, che ne ha enfatizzato alcuni aspetti deteriori della pratica italiana. Il Presidente ne ha però dimenticato le potenzialità e, al tempo stesso, ha sottovalutato i danni della soluzione alternativa, fondata su un liberismo spinto, specialmente se applicato ad un mercato, quello del lavoro, nel quale l’oggetto del lavoro non riguarda cose, ma coinvolge la vita, le aspirazioni e i sentimenti di persone. Dopo le mancate concertazioni sulla riforma delle pensioni, sugli ammortizzatori sociali e soprattutto sui criteri di licenziabilità dei singoli lavoratori, appare estremamente difficile poter contare sulla collaborazione del movimento dei lavoratori per affrontare eventuali ulteriori sacrifici, qualora non si riuscisse a contenere le bramosie degli speculatori internazionali, dei corrotti della politica e degli evasori-elusori fiscali.