Le ingerenze “comunitarie” nelle tornate elettorali di Portogallo, Grecia e Italia. Ma ora che tocca alla Germania, a Berlino tutto tace e l’intera politica europea appare congelata
Una delle lezioni che abbiamo imparato da questa lunga crisi è che non tutti i cittadini hanno gli stessi diritti, e non ci riferiamo alle ben note e ormai grottesche vicende giudiziarie italiane. L’Europa è chiaramente composta da cittadini di serie A e cittadini di serie B. I cittadini di serie A, esercitando liberamente il loro diritto di voto, hanno il potere di decidere l’indirizzo politico del proprio paese e determinare anche forti influenze nel resto dell’Unione. I cittadini di serie B, quando si avvicina il momento in cui sono chiamati a votare, sono soggetti a sempre più frequenti limitazioni, condizionamenti, vere e proprie minacce, ormai anche esplicite, provenienti dall’estero, che sia un altro paese o un organismo sovranazionale.
Il 5 giugno 2011 le elezioni portoghesi sancirono la vittoria del centrodestra di Pedro Passos Coelho, dopo che in marzo il socialista José Sócrates era stato sfiduciato per aver proposto delle misure di austerità, richieste da Bruxelles e dai paesi creditori della zona euro. Per mesi il governo era stato spinto dall’esterno ad applicare dure misure di austerità, contro le intenzioni del Parlamento. Questo aveva debilitato Sócrates, che fu costretto alle dimissioni e ad una prevedibile sconfitta elettorale.
Il 31 ottobre 2011 il governo greco di George Papandreu propose di sottoporre a un referendum l’accettazione delle durissime condizioni richieste al paese per ricevere gli aiuti finanziari e rimanere nell’eurozona. Un semplice e legittimo esercizio democratico, nella culla della democrazia. La levata di scudi tempestiva e furibonda dei principali leader europei costrinse il premier greco a fare marcia indietro in soli tre giorni, accettare tutte le condizioni e dimettersi una settimana più tardi.
Il 17 giugno 2012 i cittadini greci furono chiamati a votare per la seconda volta nel giro di pochi mesi, dopo un lungo periodo di commissariamento politico, affidato al governo “tecnico” di Lucas Papademos. Tutti i principali capi di governo europei si adoperarono esplicitamente per “spiegare” al popolo greco cosa avrebbero dovuto votare, cosa avrebbero dovuto assolutamente evitare, e quali erano i rischi cui andavano in contro se avessero disatteso quelle “indicazioni”. La propaganda politica internazionale riuscì così a limitare l’ascesa della nuova forza politica, Syriza, che rappresentava l’unica vera discontinuità col sistema passato, favorendo invece un governo “di larghe intese” pronto ad accettare i diktat esterni.
Il 24 e 25 febbraio 2013 gli elettori italiani sono stati chiamati alle urne, anche qui dopo un governo “tecnico” in carica per oltre quindici mesi, tanto auspicato dall’estero e guidato da Mario Monti. In questo caso le ingerenze dirette dall’estero sono state certamente minori, o meno esplicite, del caso greco, ma è significativo ricordare un punto chiave della campagna elettorale. Il premier in carica, Monti, sponsorizzava la sua nuova forza politica come la più amata dagli stranieri, in particolare dalla Germania, dalle istituzioni comunitarie, e dai principali governi conservatori d’Europa. Per tutta risposta, il favorito per la vittoria, Pier Luigi Bersani, andava a cercare a Berlino un esplicito riconoscimento dall’austero Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, rassicurandolo che, nonostante rappresentasse un partito di centrosinistra, in caso di vittoria non avrebbe mai disatteso agli impegni presi dal precedente governo, così benvoluto da quelle parti. Tutto questo a un paio di settimane dal voto.
Si è spesso sostenuto che le dure condizioni richieste o imposte a questi paesi e al resto della periferia della zona euro, così come le inusuali ingerenze nella politica nazionale e la sempre più evidente limitazione della sovranità fossero mali necessari per garantire la ripresa economica. Ora, se non bastasse la teoria economica, anche la prova dei fatti e i risultati ottenuti dimostrano che tutto ciò non era necessario da un punto di vista economico. Le ragioni sono invece politiche, ma più che di politica internazionale si tratta di semplice politica interna di altri paesi, in particolare la Germania.
Anche a Berlino c’è piena consapevolezza delle storture insite in un’unione monetaria incompleta, inefficiente e fortemente squilibrata. C’è anche la consapevolezza che prima o poi arriverà un conto da pagare, o sotto forma di maggiori trasferimenti netti (unione fiscale) per tenere in vita la zona euro, o di una perdita di competitività per il rapido apprezzamento della propria valuta (in caso di rottura della zona euro). La necessità di non turbare la sensibilità dell’elettorato tedesco, però, ha congelato qualunque discussione in merito, almeno fino alle elezioni del 22 settembre prossimo.
L’elettore tedesco non va disturbato, l’unica priorità per il governo che sta determinando le sorti dell’Unione europea è quella di evitare grossi problemi prima del voto, così da garantire la rielezione della Cancelliera. A tal fine tutto è concesso: chiudere un occhio sul rispetto delle condizioni, così come sulla povertà dilagante in Europa, dare il minimo margine di manovra necessario a Mario Draghi per evitare tempeste sui mercati finanziari, rimandare ogni decisione difficile o impopolare, insomma congelare la politica europea.
La rielezione di Angela Merkel sembra scontata, con oltre il 40% dei seggi nel Bundestag. Poi tutto ricomincerà a muoversi. I partner di governo attuali, i liberali, non dovrebbero riuscire a garantirle una maggioranza, quindi accetterà un’alleanza con i verdi o con i socialdemocratici, così da usarli come capro espiatorio per le concessioni che sa di dover fare in termini di trasferimenti verso la zona euro. La Cancelliera sa bene che i benefici che finora la Germania ha tratto dall’unione monetaria vanno compensati con maggiori trasferimenti. La teoria economica non è sconosciuta a Berlino. La realpolitik neanche, però. Quindi quale migliore occasione di rimandare tutto a dopo le elezioni e scaricare poi le responsabilità di un cambio di rotta sui nuovi alleati?
Poco importa che intanto lì fuori la crisi continui, la povertà aumenti, la disoccupazione raggiunga cifre mai conosciute, la sovranità politica sia limitata, l’Unione europea sia paralizzata. I paesi di serie A, sempre gelosi della propria sovranità, devono giustamente esercitare i propri diritti democratici senza troppe interferenze esterne. I paesi di serie B, invece, che cercavano il famoso “vincolo esterno”, si rassegnino ad accettare varie ingerenze esterne, sempre più vincolanti.