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Le crisi di mortalità dopo la fine dell’Urss

Tra il 1989 e il 2014 il passaggio dal socialismo reale al capitalismo ha causato circa 18 milioni di morti aggiuntive nei paesi dell’Est – di cui 12 milioni in Russia -, in prevalenza uomini tra i 15 e i 59 anni. Un enorme aumento di mortalità legato soprattutto a disoccupazione, precarietà, disuguaglianze.

L’epidemia di coronavirus non è l’unico episodio che ha provocato un grave aumento di mortalità in tempi recenti. In Europa l’esperienza più grave si è avuta dopo il 1989, alla fine dei regimi comunisti in Russia e nei paesi dell’Est europeo. Quella vicenda è analizzata ora nel volume curato da Vladimir Popov When Life Expectancy Is Falling: Mortality Crises in Post-Communist Countries in a Global Context (Nova science publishers, 2020) e in particolare nel capitolo 4 di Giovanni Andrea Cornia The Mortality Crisis of the Former Soviet Bloc Countries, 1989-2014.

Cornia sintetizza l’argomento nelle prime righe: “La transizione dei paesi ex-comunisti europei verso l’economia di mercato e la democrazia liberale rappresenta il più vivido esempio di come riforme economiche e politiche potenzialmente favorevoli possano causare una pesantissima crisi di mortalità”. Il risultato della transizione è stato un disastro: “Gli anni dopo il 1989 sono stati caratterizzati da una severa recessione, una caduta della produzione e dei redditi, il rapido impoverimento di ampie fasce della popolazione, un aumento della concentrazione del reddito e della ricchezza, una grande disgregazione sociale e una acuta crisi di mortalità”.

Per collocare la crisi in una prospettiva storica, è necessario ricordare che il “socialismo reale” aveva perduto la sua spinta propulsiva da tempo; anche se i tassi ufficiali di crescita del Pil erano ancora positivi, la speranza di vita media in Russia nel 1989 era superiore a quella del 1970 di appena un anno. Ma la catastrofe innescata dalla caduta dei regimi comunisti ha causato sofferenze enormemente maggiori rispetto a quelle derivanti dalla stagnazione precedente. Il numero di poveri è aumentato di 100 milioni, quello di disoccupati di 10 milioni, il crimine è triplicato, i matrimoni sono diminuiti e i divorzi aumentati. In tutti i paesi ex-socialisti (con l’unica eccezione della Slovenia) la speranza di vita maschile è caduta e il tasso lordo di mortalità è aumentato. In Russia, in particolare, la speranza di vita maschile in Russia è scesa a soli 57,6 anni, 6,6 meno che nel 1989 e tre in meno rispetto all’India. La crisi di mortalità ha colpito soprattutto una sottoclasse, prima inesistente, di “uomini e (meno) donne giovani e di mezza età, con scarsa educazione (…) e poche prospettive sul mercato del lavoro”.

Ci sono state grandi differenze tra i cinque paesi dell’Europa centrale, da una parte, e la Russia e le altre repubbliche ex-sovietiche dall’altra. Nei primi la crisi è stata relativamente breve e si sono manifestati segnali di ripresa già nel 1992-1994. Nei paesi ex-sovietici la caduta è stata molto più grave, ed è durata molto di più. Per analizzare le differenze tra i due gruppi di paesi Cornia utilizza una interessante misura sintetica (sviluppata in lavori precedenti) della distorsione dell’economia, che unisce tre indicatori: spesa militare, prevalenza dell’industria pesante e peso relativo del commercio intrasovietico. Su questa base, Cornia mostra che i paesi dell’Europa centrale, che avevano minori distorsioni rispetto a quelli ex-sovietici e un tessuto sociale caratterizzato da un maggiore livello di coesione e di associazionismo, hanno avuto recessioni e inflazioni meno acute e di minore durata, hanno registrato aumenti moderati della disuguaglianza e non hanno sperimentato un disfacimento dello Stato né un grande aumento del consumo di alcol.

I governi est-europei, sotto la pressione di una opinione pubblica ormai libera di manifestarsi democraticamente, hanno applicato programmi di sostegno all’occupazione e aumentato e migliorato tecnologicamente la spesa pubblica per la sanità. È anche probabile che la tenuta della spesa pubblica e la durata relativamente breve della recessione nei paesi est-europei siano state facilitate dall’apertura del mercato Ue e dagli aiuti occidentali.

Al contrario, nei paesi ex sovietici (specialmente quelli abitati da slavi) e nei Balcani, la crisi di mortalità è stata molto più grave. La spesa pubblica per la sanità è crollata, la flebile ripresa del 1995-1998 è stata interrotta dalla crisi del rublo, e le cose hanno cominciato a migliorare solo nel 2003. Ma la speranza di vita maschile è ritornata al livello del 1989 solo nel 2012 in Russia, e nel 2013 in Bielorussia e in Ucraina.

La conclusione è che il passaggio dal socialismo reale al capitalismo ha causato circa 18 milioni di morti in più nel periodo 1989-2014, di cui 12 milioni in Russia: lo stesso ordine di grandezza delle vittime civili sovietiche nella seconda guerra mondiale (secondo le fonti ufficiali dell’URSS, accanto a 8 milioni di militari caduti) e assai di più di quelle della carestia del 1929-1933. La maggior parte delle vittime sono stati maschi dai 15 ai 59 anni.

Nel frattempo, la Russia ha accumulato un ritardo crescente in termini di speranza di vita: la differenza tra Russia e Italia in termini di speranza di vita maschile è più che raddoppiata, da 6,9 anni nel 1989 a 14,7 anni nel 2014; il divario per la Russia è cresciuto anche rispetto ai paesi est-europei.

La parte più interessante del capitolo è quella in cui Cornia discute la validità relativa delle molte spiegazioni che sono state avanzate per spiegare l’accaduto. L’autore le divide in tre gruppi: spiegazioni di scarsa o nulla rilevanza, spiegazioni rilevanti ma incomplete e spiegazioni veramente rilevanti.

Nel primo gruppo vi sono spiegazioni legate soprattutto a un miglioramento dell’accuratezza delle statistiche, l’inquinamento, l’effetto ritardato degli stenti patiti dalla generazione nata durante la guerra, i cattivi stili di vita. Sorprendentemente (ma del tutto plausibilmente) Cornia sostiene inoltre che l’impoverimento di massa non ha comportato una sottonutrizione di massa, e quindi non è di per sé una delle cause maggiori dell’aumento di mortalità. Il deterioramento della sanità pubblica è un fattore importante, ma non va sopravvalutato, perché non spiega la concentrazione del fenomeno tra gli uomini giovani e l’aumento di alcune, ma non tutte, le patologie.

L’ aumento del consumo di alcolici è stato effettivamente un fattore rilevante. Tuttavia non ha avuto un peso omogeneo in tutti i paesi e in tutti gli anni del periodo di transizione, e può spiegare solo una minoranza (importante) dei decessi dei maschi e pochissime delle morti delle donne. Ma il fattore centrale è stato un altro: uno spaventoso stress psicosociale, con i suoi effetti diretti (un aumento della secrezione di cortisol e altre sostanze, con effetti dannosi per l’organismo) e indiretti (maggiore uso di alcol, tabacco e droghe).

Lo stress psicosociale è derivato soprattutto dall’aumento della disoccupazione e della precarietà, a loro volta causate soprattutto dalle privatizzazioni (soprattutto nei casi di privatizzazioni “selvagge” e affrettate) e dall’aumento delle disuguaglianze, accompagnato in alcuni paesi dal formarsi di una classe di super-ricchi e da una sottoclasse di sottoproletari. A questo proposito Cornia sottolinea che l’indice di Gini è aumentato molto di più – addirittura di 10-20 punti – nei paesi (ex-URSS e Europa sud-orientale) che hanno sperimentato la crisi di mortalità in forma più estrema, mentre è aumentato poco in Europa centrale, mantenendosi a livelli moderati per gli standard internazionali. Alla fine del periodo esaminato dall’autore, nel 2014, i paesi dell’Europa orientale (Polonia esclusa) avevano ancora un indice di Gini del 25-27%, non lontano da quello dei paesi scandinavi. In Russia, nel Baltico e nell’Europa sud-orientale invece l’indice di Gini oscillava tra il 35 e il 42%, superiore a quello dell’Italia.

Fattori addizionali importanti sono stati l’aumento del numero di persone sole e, in alcuni casi, le migrazioni interne. L’autore presenta inoltre alcune stime che mostrano una correlazione positiva tra variabili che rappresentano indici di democrazia parlamentare e rappresentativa e la speranza di vita maschile. È possibile che vi sia una sorta di circolo virtuoso tra (relativo) egualitarismo e democrazia, con effetti sociali positivi. Si può ipotizzare che nei paesi dell’Europa orientale livelli bassi di diseguaglianza sociale abbiano favorito una maggiore democrazia sostanziale, che questa maggiore democrazia abbia a sua volta permesso di evitare un forte deterioramento della distribuzione, e che quindi il micidiale effetto della disuguaglianza sullo stress psicosociale sia stato minimizzato, con positivi effetti sulla speranza di vita.