Il governo vuole aumentare la flessibilità in entrata per accrescere l’occupazione. Ma seguendo questa rotta si rischia di contribuire al declino della produttività del lavoro
Non vi è dubbio che dagli anni ’90 molti paesi abbiano intrapreso la strada della flessibilità del lavoro esterna, di mercato, per trarre vantaggi di costo ed accrescere la competitività sui mercati, cercando di innescare tramite questa via non solo un aumento dell’occupazione, e riduzione della disoccupazione, ma anche una ripresa della produttività del lavoro. In Italia questo percorso è iniziato almeno dal 1997 con la legge Treu, passando per la legge Biagi del 2003, sino a giungere alla legge Fornero del 2012.Alla costituzione del nuovo governo di grande coalizione Letta-Alfano, anche su pressione della Confindustria che da tempo critica la riforma Fornero per avere irrigidito le procedure di assunzione per lavoratori con contratti diversi dal tempo indeterminato, ed averli resi più costosi per l’impresa, è stata riproposta la via classica alla creazione di occupazione, quella di rendere più flessibili gli ingressi e far crescere l’occupazione via contratti atipici.La tesi della flessibilità del mercato del lavoro e di riduzione delle protezioni all’impiego, per facilitare le entrate e le uscite per l’impresa (flessibilità numerica) come leva per far crescere l’occupazione, è stata criticata da vari commenti pubblicati di recente, ad iniziare da Brancaccio (1) ripreso da Keynesblog.com, da Gallino (2) su La Repubblica, da Alleva (3) su il manifesto.Protezioni del lavoro e produttività del lavoroMinore attenzione invece è stata posta alle implicazioni di tali proposte di ripristino della normativa precedente sulla produttività del lavoro, e sul trade off tra riduzione delle protezioni all’impiego e l’efficienza del sistema, misurata dalla produttività del lavoro. La falsa credenza che minori protezioni implichino maggiore produttività è “dura a morire” nel discorso politico ed economico. Ed in Italia ancora meno fa breccia l’idea che è invece l’innovazione nei luoghi di lavoro a costituire la leva per riprenderci dal lato dell’offerta dal declino della produttività, a condizione sine qua non che vi sia una domanda keynesiana che sostenga la domanda di lavoro delle imprese
Il graf.1 evidenzia il legame tra variazioni (diminuzioni) delle tutele del lavoro e crescita della produttività del lavoro per ora lavorata per un insieme di paesi europei. La relazione, che per i fautori della flessibilità di mercato dovrebbe essere negativa, meno protezioni all’impiego più produttività, non è confermata. Anzi, in gran parte dei casi per i paesi Oecd essa risulta positiva, e come nel grafico anche significativa: i paesi che hanno ridotto più di altri le tutele del lavoro evidenziano tassi di crescita della produttività del lavoro più modesti (l’Italia nella nuvoletta!). (Togliere tutele al lavoro non aiuta la produttività [4])
Graf. 1 – Tasso di crescita della produttività del lavoro (π) e variazione indice di protezione all’impiego (Δepl), 1990-2008
La riduzione delle protezioni dell’impiego e la facilità di gestire la flessibilità numerica da parte delle imprese nella gestione del fattore lavoro, in entrata ed in uscita dal mercato del lavoro, costituisce un freno nella ricerca di una più sostenuta dinamica della produttività realizzabile via innovazione tecnologica ed organizzativa nell’impresa stessa, e favorisce la sopravvivenza di imprese poco innovative che riescono a rimanere sul mercato traendo vantaggio dal contenimento dei costi e/o da posizioni di rendita sul mercato dei beni e servizi. In altri termini, al trade off tra protezione dell’impiego e crescita della produttività viene sostituito il trade in tra attività innovativa e crescita della produttività.
Innovazioni nei luoghi di lavoro e produttività
Nella letteratura vengono definite best work organization practices quei fattori di flessibilità innovativa interna all’impresa nella gestione delle risorse umane che, assieme all’innovazione delle tecnologie e dei prodotti, consentono di realizzare gli incrementi di produttività che sostengono la competitività sui mercati (Quell’organizzazione del lavoro che non cambia [5]).Qui ci chiediamo che relazione sussista tra forme di flessibilità innovativa, in particolare con l’adozione delle best work organization practices e la dinamica della produttività del lavoro, ed anche come si colloca il nostro paese quanto ad adozione di best work organization practices.Dall’indagine Eurofound del 2009 si ricava la tab.1 che mostra il grado di diffusione di alcune misure innovative adottate negli stabilimenti in Europa, distinte nei 5 gruppi di pratiche. La flessibilità dell’orario di lavoro e la formazione sono quelle più diffuse; ma anche quelle meno diffuse, gli incentivi finanziari ed economici, pratiche di lavoro di gruppo, e il coinvolgimento dei lavoratori, sono comunque significative. Inoltre, l’indagine evidenzia che in circa un terzo degli stabilimenti si utilizzano almeno due gruppi di pratiche innovative: il fenomeno della adozione multipla è da rimarcare in quanto si ha il noto effetto di complementarietà secondo il quale i benefici totali dell’adozione in cluster sono maggiori della semplice somma dei benefici derivanti dalle singole pratiche.Dall’indagine emergono però grandi differenze nel tasso di adozione delle pratiche innovative tra paesi, ed emerge anche la collocazione particolarmente sfavorevole dell’Italia. La tab.2 mostra inequivocabilmente come l’Italia sia indietro quanto ad adozione rispetto a gran parte dei paesi: 25esima posizione nell’ordinamento due o più pratiche. Inoltre, l’Italia primeggia in negativo per la quota di luoghi di lavoro che non adotta nessuna delle pratiche di lavoro considerate: ben il 51% contro una media del 32,5%; sotto l’Italia troviamo, su 30 paesi, solo Malta, Turchia, e Grecia, paesi certamente a debole vocazione industriale. L’Italia presenta solo il 17% dei luoghi di lavoro in cui si adottano almeno 2 gruppi di pratiche; peggio dell’Italia fanno solo i paesi sopra richiamati, a cui si aggiungono Ungheria e Cipro. La Germania fa 2 volte meglio dell’Italia (38%), mentre paesi del nord Europa fanno 3 volte meglio (55% e più, per Finlandia, Svezia, Danimarca, Olanda).Tab.1 – Diffusione di pratiche innovative (in % degli stabilimenti intervistati).Fonte: Eurofound (2011).
Tab.2 – Diffusione di pratiche innovative e frequenza, per paese
Fonte: Eurofound (2011).Con riferimento specifico alla produttività, abbiamo effettuato un semplice esercizio di associazione tra diffusione di pratiche e crescita della produttività del lavoro, incrociando a livello di paesi i dati Eurofound del 2009 con quelli Oecd sulla produttività per ora lavorata degli anni 2010-2011, che sebbene relativi ad un periodo non certo congiunturalmente favorevole, è successivo a quello dell’indagine effettuata negli stabilimenti europei. I graf. 2.1-2.2 seguenti evidenziano la relazione individuata.I paesi in cui prevalgono stabilimenti che adottano almeno una pratica hanno performance di produttività più robuste rispetto a quelli ove gli stabilimenti poco adottano best work organization practices. La differenza emerge anche nel caso di adozione di almeno due pratiche innovative, e anche se debolmente trova conferma la tesi della complementarietà tra pratiche. Dall’analisi descrittiva (ancora fatti stilizzati) emerge che la flessibilità innovativa interna all’impresa, declinata dall’innovazione nelle pratiche di organizzazione di lavoro, è associata a guadagni di produttività anche in un periodo certo non favorevole alle imprese.
Graf.2.1 – Tassi di crescita annuali della produttività del lavoro 2010-2011 (π) e quota di stabilimenti che adottano almeno una pratica innovativa nei luoghi di lavoro nel 2009 (bwop) (analisi per 22 paesi europei)
Graf.2.2 – Tassi di crescita annuali della produttività del lavoro 2010-2011 (π) e quota di stabilimenti che adottano almeno due pratiche innovative nei luoghi di lavoro nel 2009 (bwop)
Esaminiamo anche l’eventuale trade off tra protezione dell’impiego e innovazioni nei luoghi di lavoro. L’analisi sulla quota degli stabilimenti con una pratica adottata e l’indice di protezione da luogo al seguente graf.3. I paesi in cui le riforme di deregolamentazione del mercato del lavoro hanno maggiormente proceduto sono quelli in cui più bassa è la quota di stabilimenti che hanno adottato una pratica innovativa, mentre nei paesi ove le riforme hanno accresciuto le protezioni all’impiego la quota di stabilimenti con una pratica innovativa non scende sotto la soglia del 30% (dove le protezioni sono state ridotte, tale quota scende anche sotto il 25%). La relazione tra mantenimento delle protezioni all’impiego e adozione di pratiche innovative appare positiva e statisticamente significativa nel caso di una pratica adottata (che sia del tipo A piuttosto che B come in precedenza indicato), evidenziando un possibile trade in tra tutele del lavoro e adozione di una specifica tipologia di innovazione nei luoghi di lavoro. In altri termini flessibilità esterna all’impresa appare sostituta della flessibilità interna. Questo semplice ma significativo “fatto stilizzato” invia di per sé un segnale alla ricerca scientifica, che crediamo abbia anche implicazioni per le opzioni di policy.
Graf.3 – Variazione indice di protezione all’impiego (Δepl), 1998-2008 e quota di stabilimenti che adottano una pratica innovativa nei luoghi di lavoro nel 2009 (bwop)
ConclusioniDagli anni novanta, in procinto di entrare nell’eurozona, l’Italia ha proseguito ininterrottamente la strada della flessibilità del mercato del lavoro con l’obiettivo di far crescere l’occupazione, ridurre la disoccupazione e contrastare il declino della produttività del lavoro. Le riforme “al margine” hanno però mancato gli obiettivi annunciati. Nel decennio dell’euro è cresciuta l’occupazione grazie alla sua componente temporanea, in parte a scapito di quella permanente, le retribuzioni non hanno tenuto il passo della crescita dei prezzi, i salari nominali netti sono tra i più bassi in Europa, il declino della produttività è accelerato, ed è aumentata la distanza dagli altri paesi europei, non solo dell’eurozona..Dopo 15 anni di politiche di riforme strutturali mal riuscite e sotto i colpi delle politiche “suicide” di austerità espansiva ci ritroviamo con una disoccupazione ufficiale attorno al 12%, che sale al 18%, più di 5 milioni di persone, se teniamo conto della cassa integrazione, dei lavoratori scoraggiati, dei NEETs, e con un tasso del 40% circa di disoccupazione giovanile.Il nuovo governo di “pacificazione” ha prospettato di intervenire sulla riforma Fornero (La non riforma pagata dai precari [6]), per ripristinare le condizioni di maggiore flessibilità in entrata, come misura per contrastare la disoccupazione in periodo di crisi, e forse accrescere le convenienze delle imprese per i contratti temporanei. Interventi di questo tipo non solo rischiano di essere poco efficaci, se non per una sostituzione di occupazione permanente con occupazione temporanea, ma sono associati ad una riduzione della produttività del lavoro, come l’esperienza insegna. Invece di accrescere la flessibilità nel mercato del lavoro, peraltro senza accrescere le tutele e le garanzie di reddito, sarebbero opportune politiche di innovazione nei luoghi di lavoro, campo in cui il nostro paese è fanalino di coda in Europa, e ripristinare le condizioni di domanda aggregata, condizione sine qua non per una ripresa della domanda di lavoro e della produttività.(*) La versione completa di questa analisi si trova qui: http://docente.unife.it/paolo.pini/contrattazione-produttivita-crescita-ripensare-gli-obiettivi-ed-i-metodi/flessibilita-del-lavoro-201criforma-della-riforma201d-o-cambio-di-rotta-verso-l2019innovazione-di-paolo-pini-maggio-2013/view***Fonti utilizzate per l’analisi
Eurofound (2011), HRM Practices and Establishment Performance, Eurofound, Dublino: www.eurofound.europa.eu/pubdocs/2011/69/en/1/EF1169EN.pdf.
Oecd (2013), Statistical database: http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=EPL_OV# 16 maggio 2013
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