Top menu

Lavoro e democrazia: dal Jobs act al referendum 

La demercificazione del lavoro è sempre andata insieme alla democratizzazione della società. Per questo la battaglia dei referendum lanciata dalla Cgil è soprattutto una battaglia di democrazia, contro l’abulia della crisi della partecipazione. L’analisi della fondazione Di Vittorio sugli effetti del Jobs Act.

La democrazia oggi è evidentemente in crisi, come dimostrano gli esiti elettorali ad ogni latitudine. Allo stesso tempo è chiaramente insostenibile quel modello di sviluppo e di crescita quantitativa su cui anche la democrazia nella forma post-costituzionale ha costruito parte delle sue fortune, se possiamo così definirle. Abbiamo dimenticato troppo in fretta quanto la democrazia costituzionale fosse legata alla partecipazione politica del lavoro organizzato. Nel novembre del 1977 Bruno Trentin al convegno di Venezia sulla crisi democratica dei Paesi socialisti evidenziava esattamente ciò che aveva visto nella sua esperienza fino ad allora: «La democrazia avanza nel mondo con il movimento operaio, con le sue lotte e persino le istituzioni, come le intendiamo oggi, recano le impronte delle lotte operaie. La democrazia non procede più, non avanza più, senza questo protagonista fondamentale. La diffusione della libertà nel mondo dipende così dalla storia concreta del movimento operaio, dalle sue avanzate non certo dalle fortune della liberaldemocrazia». Trentin aveva certamente ragione. Le istituzioni come le intendiamo oggi recano le impronte del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori, basti pensare che nel 1892, quando nacque, Giuseppe Di Vittorio non aveva il diritto di voto. Quel popolo di lavoratori e lavoratrici viveva una condizione separata dallo Stato. Prima della costituzionalizzazione delle masse popolari, l’estraneità dello stesso associazionismo bracciantile e operaio all’interno della società e dello Stato liberale corrispondeva all’apoliticismo di chi per vivere aveva bisogno di vendere il proprio corpo, il proprio tempo. Apoliticismo nel senso di non partecipazione alla polis. La Confederazione generale del lavoro, già negli anni che vanno dal 1906 al 1911, si impose come organismo di rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro attraverso una piattaforma programmatica autonoma dallo Stato e dalle forze politiche che lo animavano. Questo farà dire ad Alfredo Rocco nel 1920 che lo Stato stava perdendo gli attributi della sovranità e si dissolveva in una moltitudine di corpi minori: associazioni, leghe, ma soprattutto sindacati che lo vincolavano, che lo soffocavano. In realtà nasceva dal basso quella che, grazie alla guerra di liberazione e alla sconfitta del nazifascismo, sarà la democrazia costituzionale plasmata dalle lotte bracciantili prima e poi operaie. Solo attraverso quella conflittualità diffusa e prevalentemente organizzata sarà possibile l’avanzamento della democrazia sociale. Oggi ne misuriamo la crisi profondamente connessa ad una nuova separazione delle masse dalla vita pubblica, dalla polis. Esito di oltre trent’anni di progressivo impoverimento, negazione di opportunità, privazione di diritti. Se dallo Stato non ti aspetti nulla, smetti di credere anche nella democrazia, pensi che nulla da questa ci si debba aspettare. Smetti di praticarla, soprattutto se nel tempo si è atrofizzata limitandosi all’esercizio del diritto di voto. La fase di crescita e di espansione dei diritti del lavoro e di cittadinanza ha coinciso con una straordinaria stagione di lotte che dai luoghi di lavoro si sono diffuse in tutti gli ambiti della società. 

Quindi è solo nella ripresa di una diffusa partecipazione democratica che ciò sarà di nuovo possibile. È proprio quella partecipazione che andrebbe promossa in tutte le sue forme all’interno di una nuova pedagogia democratica fondata sulla speranza. Questo è ciò che facciamo, questo ciò che faremo. 

Ecco perché la Cgil, dopo un importante dibattito interno, ha deciso di lanciare una straordinaria sfida democratica dal basso per ridare voce e valore politici al lavoro, che non è merce tra le merci ma parte della vita umana che, come tale, non è fatta per essere venduta. È chiaro il nostro sforzo di riproporre al centro della riflessione pubblica, attraverso i Referendum, la condizione del lavoro precario e insicuro, povero e discriminatorio, consegnando alle cittadine e ai cittadini il potere di decidere direttamente con il voto sulla loro condizione. 

Occorre restituire al lavoro la sua dignità e quindi la sua dimensione politica, la sua voce, ma la chiave è quella della democrazia: democratizzare il lavoro per democratizzare la società. E il referendum è uno dei modi possibili, parte di un progetto più ampio volto a rilanciare l’applicazione dell’Articolo 39 della Costituzione come asse portante di una rinnovata strategia partecipativa delle lavoratrici e dei lavoratori. Un percorso di mobilitazione che si intreccia alle vertenze per i rinnovi contrattuali e alle proposte di legge di iniziativa popolare che presenteremo nelle prossime settimane. Senza dimenticare che il salario minimo e il reddito di cittadinanza devono essere anch’essi parte di una proposta adeguata alla sfida del tempo presente. 

La demercificazione del lavoro è andata insieme alla democratizzazione della società. Il lavoro libero e dignitoso è il lavoro che ha voce e che può esprimersi. 

Su questo si basa l’identità del sindacato, le strategie della trasformazione sociale, le vie dell’emancipazione e della liberazione della persona che lavora, incrociando temi e questioni centrali per la nostra storia e cultura politica, come appunto quelle dell’autonomia, dell’autogoverno, della democrazia radicale. Un investimento straordinario nella partecipazione diretta dentro e fuori i luoghi di lavoro. 

Si tratta di parole-chiave e idee-forza che rimandano ad una visione della democrazia che non si esaurisce nella delega, ma che ha nella partecipazione attiva e nell’autodeterminazione dei soggetti la propria linfa vitale. La democrazia continua della nostra Carta costituzionale che non a caso ha previsto all’Articolo 39 un modello sindacale ispirato anche a questi principi. Una democrazia fondata appunto sul lavoro e sull’allargamento degli spazi di partecipazione. 

Solo se si riparte dal lavoro e dalla sua rappresentanza democratica potremo imprimere un cambiamento profondo nel nostro modello sociale ormai insostenibile. 

Non ci stancheremo mai di ripeterlo: se la vera crisi della democrazia è la crisi della partecipazione, ciò dipende dalla progressiva perdita di valore del lavoro. La politica ha cancellato il lavoro dalla sua agenda da molti anni assecondando la deriva di un modello sociale plasmato sull’idea che tutto può essere ridotto a merce, a partire dalla vita che si esprime nel lavoro, passando per l’istruzione, la salute e l’ambiente. In questo, la sinistra politica ha una responsabilità diretta, avendo scelto di allontanarsi dalle vicende del lavoro salariato da molto tempo, da quando, cioè, prevalse l’idea che il vero obiettivo risiedesse nella conquista del governo a prescindere dai programmi. Idea che, nelle prime pagine del libro che può essere considerato l’apice della sua raffi-nata riflessione politica, La città del lavoro, Trentin aveva definito «trasformismo della sinistra». Ma dalla pubblicazione di quel libro sono passati trent’anni. 

Il vantaggio di confrontarci con la storia è che da essa apprendiamo che è imprevedibile. Certamente, se osserviamo il processo di costituzionalizzazione del nostro Paese – o meglio dell’adeguamento progressivo di istituzioni e strutture sociali ad alcuni dei principi della Carta del 1948 – vedremo come questo compromesso rappresenti quanto di più avanzato si potesse sperare dal punto di vista delle persone che per vivere devono lavorare. Ma le stesse lotte sociali del decennio 1964-1974 non erano prevedibili. 

Il fatto che l’uomo non sia più il costruttore della storia unico e onnipotente non significa che debba subirne leggi imperscrutabili. 

La profonda accelerazione tecnologica, l’interconnessione istantanea, la capacità di elaborare quantità di dati impressionanti hanno già avuto e sempre più avranno conseguenze enormi sul lavoro. Così come i cicli economici e gli equilibri geopolitici. 

Oggi siamo molto più vicini agli anni Cinquanta che alla stagione della costituzionalizzazione del lavoro. Questo non lo considero un avanzamento, tutt’altro. Ma non c’è nulla di determinato. 

Ricostruire la partecipazione democratica dentro e fuori i luoghi di lavoro diventa quindi un obiettivo fondamentale che deve tuttavia fare i conti con il salto epocale che stiamo vivendo. In questa idea lineare della storia, tipicamente occidentale, si colloca anche quella di un progresso che ci permetterà di continuare a vivere, produrre e consumare grazie all’avanzamento della ricerca scientifica e tecnologica tanto potente da portarci a colonizzare altri pianeti. Così ci salveremo dalla catastrofe climatica. Un tentativo in malafede e disperato di rinviare la messa in discussione definitiva di un modello di produzione e consumo insostenibili, rilegittimato e rilanciato dalla guerra e dal conseguente processo di militarizzazione a cui stiamo assistendo. 

Oggi sul clima e sulla guerra si gioca la vera partita tra autoritarismo e democrazia. Solo quest’ultima, rinnovata, radicalizzata, radicata nuovamente nei territori e nei luoghi di lavoro e di studio può salvarci. 

1.1. Contro l’ideologia del Jobs Act 

Per queste ragioni riflettere sul «mercato del lavoro» partendo solo dai dati dell’occupazione rimuovendo i presupposti politici e ideologici sottesi alle scelte del legislatore rispetto alla regolazione dei rapporti di lavoro è un errore grave. Lo è sempre stato ma oggi, a fronte della verifica empirica delle conseguenze reali sul fronte occupazionale di una delle scelte più marcatamente ideologiche di questi ultimi anni, cioè la sostanziale manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ad opera della legge nota come Jobs Act, lo è ancora di più.

L’analisi degli andamenti dell’occupazione negli ultimi 10 anni, di cui presentiamo qui una sintesi insieme ad una riflessione ampia e articolata sui salari, sull’organizzazione del lavoro, sulla qualità del lavoro, sulla rappresentanza, lo testimonia chiaramente. Dimostra in modo incontrovertibile quello che molti avevano sempre sostenuto. Gli andamenti dell’occupazione e i processi di deregolazione sono largamente indipendenti. Tradotto: la così detta flessibilità, mantra delle policy sul lavoro già dalla prima metà degli anni Ottanta, diventata negli anni Novanta idea egemone nel discorso pubblico come via per uscire dalla sottoccupazione, in particolare di determinate categorie di lavoratrici e lavoratori, si è rivelata ininfluente rispetto agli obiettivi dichiarati e disastrosa sotto il profilo delle conseguenze umane ed economiche. Ha contribuito a deprimere l’andamento dei salari, ha penalizzato e penalizzerà le casse previdenziali, ha assecondato un modello di specializzazione produttiva centrato sui beni a basso valore aggiunto, tutto questo senza incidere sui volumi di lavoro domandato e offerto, chiaramente rispondenti ad altri stimoli come dimostra quello che è accaduto dopo il Covid. 

Già dalla prima metà degli anni Ottanta, appunto nell’ambito di una certa teoria economica, iniziava ad avanzarsi l’idea che contratti di lavoro troppo rigidi scoraggiassero le assunzioni. Lo Statuto dei Lavoratori aveva poco più di 10 anni, le gigantesche lotte sociali di cui rappresentava uno dei maggiori risultati ancora fresche nella memoria ma ben più fresche le conseguenze della crisi economica della seconda metà degli anni Settanta, le pesanti ristrutturazioni produttive a partire dalla crisi dell’auto e della chimica, le grandi trasformazioni tecnologiche determinate dalla digitalizzazione nel contesto della globalizzazione dei mercati. È accaduto in un tempo brevissimo che questa teoria economica e alcune teorie sociologiche sull’organizzazione del lavoro nell’impresa da essa influenzate, mantenendo un’ottica esclusivamente specialistica, siano diventate punto di riferimento incontrastato nel dibattito pubblico. La narrazione mainstream diremmo oggi. 

La conseguenza è che gli interessi di un certo modello di impresa, funzionale a sopravvivere in un dato contesto economico orientato alle esportazioni e basato su politiche spinte di deflazione salariale, senza mediazione alcuna e soprattutto senza riflessione critica, venissero assurti al rango di interesse generale, e qualunque opinione contraria squalificata come scriveva negli anni Novanta un compianto giurista del lavoro. In realtà una precisa ideologia politica ha plasmato intere discipline scientifiche, iniziando dall’economia per arrivare al diritto del lavoro. Sappiamo bene quello che è accaduto. La gabbia democratica costruita intorno al capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale è stata scardinata anno dopo anno, utilizzando ogni crisi come un pretesto, affermando un senso comune quasi precostituzionale, ovvero, ciò che il mercato decide è giusto di per sé. Parola d’ordine: rimercificare ciò che si era demercificato, cioè il lavoro in quanto parte della vita umana. 

Questa dottrina, questa ideologia, questa chiesa laica che per comodità definiremo neoliberale utilizzando l’aggettivazione prevalente, ha predicato per trent’anni in tutti i contesti politici e sociali le medesime ricette chiamandole, ingannevolmente, “riforme strutturali”. Definizione – dietro la quale si celano privatizzazioni, allungamento dell’età pensionabile, abbassamento dei minimi salariali e cancellazione dei contratti collettivi di lavoro – che risponde, come ricordato prima, esattamente all’apparato teorico concettuale contenuto nel Rapporto Ocse del 1994, successivamente acquisito dal Fondo Monetario Internazionale e poi dalla Banca Centrale Europea (Bce). L’indagine Ocse, in sostanza, assumeva che solo un mercato del lavoro perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche macroeconomiche, avrebbe ridotto la disoccupazione. Di qui il suggerimento di allentare le rigidità in uscita, cioè, rendere i licenziamenti più facili, e legare i salari alla produttività, o meglio abbassare i minimi retributivi. In sostanza, all’eccessiva rigidità della disciplina lavoristica sarebbero imputabili gli elevati tassi di disoccupazione e il «dualismo» del mercato del lavoro di molti Paesi europei. Con il pretesto della crisi del 2008-2011 e l’incursione della Bce con la nota lettera rivolta al governo dell’epoca, siamo di fronte alla versione senza mediazioni di quell’ideologia. Il “mantra”, ripetuto ossessivamente dai teorici del liberalismo, è che l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro italiano (di cui la tutela in materia di licenziamenti sarebbe la massima espressione) scoraggerebbe gli investimenti esteri nel nostro Paese. Inoltre rappresenterebbe la causa principale della precarietà e della disoccupazione. 

Si può facilmente dimostrare che la Bce, sulla scorta del citato rapporto Ocse, ha adottato ricette indifferenziate senza avere una reale conoscenza di ciò che accade nei singoli Paesi, compreso il nostro. Come molti hanno provato a dire già all’epoca, i sostenitori della insider outsider theory evidentemente dimenticavano che le migliori esperienze europee quanto a performance occupazionali avevano in comune solo un’elevatissima imposizione fiscale e impegnative politiche di formazione professionale. Si passava dall’ampia libertà di licenziamento tipica del sistema danese, alle regole di protezione deboli dell’ordinamento britannico fino all’estremo opposto, rappresentato dal sistema svedese di tutela contro il licenziamento ingiustificato, paragonabile al nostro (prima del Jobs Act) per intensità protettiva. 

La retorica neoliberale, misconoscendo ogni analisi diversa, forte delle sue convinzioni, negli ultimi anni ha continuato a stabilire un rapporto diretto tra rigidità (presunta) del nostro mercato del lavoro, produttività e competitività. Troppa rigidità nel rapporto di lavoro per alcune categorie avrebbe portato all’aumento della precarietà, incidendo negativamente sulla produttività e conseguentemente sulla competitività del nostro sistema produttivo. Queste tesi sono state tradotte in diverse proposte, in particolare rese popolari nel dibattito pubblico da alcuni economisti del lavoro che godevano e godono di una visibilità notevole su alcuni grandi quotidiani per anni in prima fila in questa battaglia ideologica. 

L’idea, licenzio-centrica, parte dall’assunto che il maggior deterrente all’attivazione di contratti standard è il vincolo alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa, più in generale la presunta «difficoltà» di licenziare che affliggerebbe le nostre aziende. Si evidenziavano spesso, in queste tesi, la sostanziale stagnazione economica nel nostro Paese, la scarsa produttività e l’altrettanto scarsa competitività. Nel libro ci soffermeremo sulle vere ragioni di queste caratteristiche perniciose, ma prima è d’obbligo fare chiarezza sul nostro regime di protezione dell’impiego, in particolare sul vero obiettivo di tutte le presunte riforme: l’art. 18 del-la legge 300 del 1970 che alla finalità meramente risarcitoria della normativa precedente aggiungeva la reintegrazione nel posto di lavoro con la funzione di prevenzione generale contro i licenziamenti illegittimi. Nelle semplificazioni giornalistiche e nella retorica prevalente del discorso pubblico questa disciplina è stata presentata per anni come un «privilegio di pochi», assolutamente incoerente con lo sviluppo di un Paese moderno. Una sorta di zavorra, imposta dal sindacato, che il nostro ordinamento giuridico si trascinerebbe da anni. Le cose stavano e stanno diversamente. La tutela reale corrispondeva e corrisponde a uno sviluppo coerente della nostra civiltà giuridica, non solo nei rapporti di lavoro. Se il lavoro non è una merce ma implica il coinvolgimento della persona umana, ogni argine alla sua mercificazione è indice di sviluppo e di civiltà, in coerenza semmai con il dettato Costituzionale che pone alle basi della nostra democrazia il lavoro. 

Nello stesso Codice civile, peraltro trattandosi in questo caso di beni di rango decisamente inferiore, l’art. 1218, in relazione alla responsabilità contrattuale, attribuisce al creditore in primo luogo il diritto all’esatto adempimento che precede o accompagna quello al risarcimento del danno. E l’art. 2058, in relazione alla cosiddetta «responsabilità aquiliana» (extracontrattuale), riconosce al danneggiato la reintegrazione in forma specifica, se giuridicamente e materialmente possibile. Non va dimenticato, inoltre, che nel diritto civile, soprattutto nel settore della produzione di beni e servizi e della tutela del consumatore, si vanno diffondendo, sia a livello comunitario sia nella legislazione nazionale, strumenti di esecuzione in forma specifica. 

Quest’esigenza di carattere generale assume un rilievo particolare nel diritto del lavoro, dove «l’adempimento della prestazione lavorativa non è soltanto l’esecuzione di un obbligo nell’ambito di un contratto a prestazioni corrispettive, ma è anche un mezzo di espressione della personalità del dipendente, che attraverso il lavoro socializza con altri e realizza le proprie capacità intellettuali». Il contratto di lavoro crea un rapporto intrinsecamente equivoco tra le parti: non può essere messo in vigore senza investire aspetti della vita del lavoratore che, in apparenza, non erano oggetto di negoziato e di accordo. La forza lavoro non può essere usata senza coinvolgere la persona umana. 

Per queste ragioni, che la nostra Costituzione ha riconosciuto, lo svolgimento dell’attività lavorativa è connesso a diritti fondamentali – tra i quali la libertà di espressione nel luogo di lavoro, la libertà di costituire associazioni sindacali, di svolgere attività sindacali e di esercitare i diritti garantiti dallo Statuto dei lavoratori – che la tutela reale rende esigibili. 

Simili argomenti, per anni prevalenti nel dibattito pubblico, sono oggi del tutto misconosciuti, quando non vilipesi. Le forme di tutela specifica che mirino a realizzare l’effettività della prestazione lavorativa vengono considerate come una forma di «espropriazione forzata» del potere datoriale, addirittura una violazione dell’Art. 41 della Costituzione. La falsa coscienza arriva anche a questo. Chiarito, quindi, che la tutela reale è rimedio assolutamente coerente con l’evoluzione degli ordinamenti giuridici italiano e comunitario, non totem ideologico di trinariciuti sindacalisti, si vuole ora rammentare quanto falsa sia l’altra proposizione del discorso neoliberale: la tutela reale produce precarietà e disoccupazione. Sarebbe sufficiente ricordare che nel nostro paese la maggior parte delle aziende dove trovava applicazione l’art. 18 si colloca in quelle aree geografi-che dove registravamo e registriamo livelli occupazionali pari a quelli dei Paesi europei più avanzati e dove si producono i beni a più alto valore aggiunto, quelli che maggiormente esportiamo. 

In un quadro globale segnato da forte incertezza e con un’economia europea che manifesta preoccupanti vulnerabilità macroeconomiche, strutturali e tecnologiche, è essenziale fare il punto sulla posizione dell’Italia e sulla traiettoria che l’ha condotta all’attuale fragilità, un percorso nel quale le politiche del Jobs Act – assecondate da scelte pluriennali di deregolamentazione – hanno avuto un ruolo chiave. L’effetto di quelle politiche è stato aggravare, anziché ridurre, la frammentazione del mercato del lavoro e le condizioni di precarietà, con più contratti temporanei e parasubordinati, con giovani e donne sempre più penalizzati: nei dieci anni che hanno preceduto la pandemia da Covid-19, l’aumento del numero di occupati è stato alimentato da una domanda di lavoro sbilanciata su settori a bassa tecnologia e bassi salari, determinando una diminuzione delle ore lavorate pro dipendente. Il risultato è stato un crescente divario nei confronti delle principali economie europee per quel che riguarda produttività, salari e occupazione. È a partire da queste evidenze e dalla comprensione dei processi che hanno portato all’indebolimento del lavoro e al declino produttivo che è possibile pensare a come l’economia italiana potrebbe cambiare strada, con politiche del lavoro, industriali, tecnologiche e redistributive che promuovano le occupazioni stabili, gli investimenti in ricerca e sviluppo, gli aumenti di produttività, i salari e la domanda in-terna, nonché la fornitura di beni pubblici di elevata qualità. 

Questo rapporto offre un bilancio circostanziato a dieci anni dall’introduzione del Jobs Act

Dopo aver brevemente richiamato i tratti salienti della riforma, viene fornita un’analisi sistematica delle principali caratteristiche del mercato del lavoro italiano: dinamica dell’occupazione, tipologie contrattuali, evoluzione dei profili professionali e della composizione settoriale. L’analisi si basa su una pluralità di fonti statistiche e amministrative e consente di valutare l’evoluzione del mercato del lavoro prima e dopo l’introduzione del Jobs Act.

Francesco Sinopoli è presidente della Fondazione Giuseppe Di Vittorio

Questo testo è l’introduzione dell’e-book OCCUPAZIONE, SALARI E LAVORO POVERO NELL’ERA DELLA PRECARIETÀ scaricabile gratuitamente qui