La crisi fa perdere occupazione, in Italia in misura elevatissima. La via d’uscita è una nuova domanda per riconvertire l’economia alla sostenibilità ambientale e tornare all’idea di “lavorare meno, lavorare tutti”. Una discussione con Laura Balbo.
Il drammatico aumento della disoccupazione manifestatosi con la recessione che ha investito i paesi industrializzati è certamente causato da insufficienza di domanda. Non è però questa una spiegazione esaustiva, la disoccupazione era in crescita già prima dello scoppio della crisi e la causa va ricercata in larga misura nella ristrutturazione produttiva e nel cambiamento tecnologico che ha causato l’espulsione dal processo produttivo di molti lavoratori non specializzati o con qualificazioni obsolete. Non sempre e non necessariamente l’innovazione tecnologica comporta un aumento della disoccupazione. In certe fasi proprio grazie all’evoluzione della tecnologia nascono opportunità legate a nuove produzioni e vengono creati posti di lavoro. Ma in altre fasi l’introduzione di tecnologie labour saving e il ridimensionamento di attività caratterizzate da un calo della domanda dovuto a saturazione dei bisogni comportano un processo di distruzione di posti di lavoro. Nel processo dinamico di creazione e distruzione di posti di lavoro il saldo occupazionale può dunque risultare negativo specie quando le innovazioni di processo risultano più massicce e importanti delle innovazioni di prodotto; tale processo è particolarmente evidente nei momenti di crisi e di stagnazione.
In un recente articolo pubblicato su questo sito, Laura Balbo evidenzia la necessità di prendere coscienza delle conseguenze dell’introduzione di tecnologie a risparmio di lavoro, che hanno comportato una disoccupazione crescente non solo in Italia. Si apre dunque il problema di come fare fronte alla situazione senza ricorrere a drammatiche soluzioni come la guerra che in passato è stato il fattore risolutivo. Anche oggi c’è una guerra da combattere che richiede grande dispendio di risorse, ma fortunatamente non di vite umane, ed è quella per la salvezza dell’ambiente. Con la crisi il problema ambientale talora è posto in secondo piano, a torto, perché si tratta invece di un problema della massima urgenza, considerato che è in forse la sopravvivenza del pianeta. Ma è anche una grande opportunità di creare occupazione e crescita sostenibile. Come tutte le guerre anche quella per la difesa dell’ambiente richiede massicci finanziamenti pubblici e dovrebbe essere condotta a livello europeo. Il new deal verde sarebbe in grado di favorire la crescita del PIL e quindi in prospettiva non implicherebbe un peggioramento del rapporto debito/PIL e deficit/PIL. Peraltro, come già è stato proposto, sarebbe opportuno eliminare le spese per investimenti pubblici nel calcolo del disavanzo, in quanto si tratta di spese che porteranno alla crescita e quindi automaticamente alla riduzione dei rapporti fra disavanzo (e debito) e PIL, a cui tanto tengono i vertici europei.
Ma anche il lancio di un new deal verde potrebbe essere insufficiente ad assorbire la crescente disoccupazione. È importante ricordare che normalmente le imprese che riescono a sopravvivere nelle grandi crisi attuano ampi processi di ristrutturazione che includono l’utilizzo di tecnologie labour saving. Per questo dopo ogni crisi si evidenzia il fenomeno della persistenza della disoccupazione che gli economisti hanno talora chiamato “isteresi”. Tuttavia la prospettiva non può essere quella di rimettere in discussione la centralità del lavoro. Il lavoro non è solo elemento di realizzazione dell’individuo e di provenienza del reddito, è elemento fondante della società, è la fonte che alimenta lo stato sociale. E al lavoro si deve restituire la dignità che progressivamente gli è stata sottratta con il precariato, il lavoro nero e forme degradanti di occupazione.
Se con la crisi e l’avvento di nuove tecnologie non c’è lavoro per tutti non sarebbe il caso di riprendere la proposta della riduzione dell’orario di lavoro? Si tratta di una proposta controcorrente: oggi ci si indirizza nella direzione opposta (allungamento dell’età pensionabile, eliminazione di alcune festività, ecc.) e la conseguenza è un drammatico aumento della disoccupazione specie nel nostro paese, in cui anche l’occupazione pubblica è drasticamente ridimensionata. Invece si dovrebbe pensare a una riduzione dei tempi di lavoro tale da soddisfare le esigenze produttive e al contempo migliorare la qualità della vita dei lavoratori. Ci sono persone che lavorano oltre le quaranta ore settimanali, impegnate in massacranti straordinari e persone che non trovano occupazione. Inoltre l’allungamento dell’età lavorativa impedisce di liberare posti di lavoro per i giovani in una fase in cui il ristagno dell’attività produttiva non apre nuove prospettive. La riduzione dell’orario di lavoro storicamente ha costituito una conquista dei lavoratori in fasi in cui i rapporti di forza erano loro favorevoli. Si tratta dunque di una proposta difficile da realizzare in un momento di debolezza della classe lavoratrice, in un periodo in cui i diritti dei lavoratori vengono progressivamente smantellati. Tuttavia un movimento per la riduzione del tempo di lavoro, il rilancio dello slogan “lavorare meno per lavorare tutti” costituirebbe una svolta culturale degna di nota e su cui sarebbe quanto mai opportuno riaprire il dibattito.
Certamente esiste il problema dell’aggravio di costi e quindi dei finanziamenti necessari per sostenere la proposta. Almeno per i salari medi e bassi, infatti, si deve pensare a una riduzione di orario a parità di salario evitando così di alimentare l’esercito dei working poors. Dato il momento di difficoltà per le imprese il processo di riduzione del tempo di lavoro dovrebbe essere portato avanti con finanziamenti statali. Non è facile in questo momento, ma si deve tenere conto che l’aumento dell’occupazione sarebbe in grado di generare comunque un maggior gettito fiscale, permetterebbe di risparmiare sugli ammortizzatori sociali, costituirebbe un rilancio della domanda aggregata con effetti positivi sull’economia e sui conti pubblici.