Firmato a Washington l’accordo sulle “terre rare” tra Ucraina e Stati Uniti, si basa su un fondo d’investimento per la ricostruzione ma segna. anche una svolta nelle relazioni internazionali tra Usa e Europa, al di fuori dalla Nato.
L’accordo bilaterale firmato a Washington dal Segretario di Stato americano al Tesoro Scott Bessent e dalla vice premier ucraina Yulia Svyrydenko il 30 aprile sullo sfruttamento delle risorse minerarie ucraine e sui futuri aiuti militari statunitensi all’Ucraina segna una pietra miliare nelle relazioni internazionali dell’era Trump.
È sicuramente il risultato concreto di un cambio di passo rispetto al brutale litigio nello Studio Ovale della Casa Bianca nelle relazioni tra i due paesi, quando Trump è sembrato decisamente influenzato dalle ragioni di Vladimir Putin. Ma il cambio di passo si registra ora anche tra l’Europa e gli Stati Uniti decisamente fuori dall’ambito Nato.
Simbolicamente l’accordo “sulle terre rare”, come viene chiamato dalla stampa nostrana, può essere visto come il frutto del faccia-a-faccia tra Trump e Zelensky nella Basilica di San Pietro a margine dei funerali di papa Francesco, con coté di Macron e Starmer che si aggiravano tra le sedie sui mosaici vaticani. Ma a ben vedere è soprattutto il risultato di un intenso lavorio tecnico e diplomatico dietro le quinte, che ha coinvolto nelle ultime settimane anche lo studio legale internazionale britannico Hogan Lovells, ingaggiato da Kiev come consulente. Quindi l’accordo è stato raggiunto con il supporto degli partner europei di Kiev, dentro e fuori dall’Unione europea.
Il testo dovrà essere ratificato dalla Rada di Kiev, il Parlamento ucraino, e mancano ancora appendici tecniche. Consta in 12 pagine, contro la precedente bozza di marzo presentata dall’Ucraina che arrivava a 90 pagine. Al momento, è vero, si tratta solo di un pezzo di carta sul futuro della ricostruzione del Paese ancora tutto da vedere, mentre i negoziati per il cessate il fuoco con la Russia sono impantanati in una fase di stallo dopo oltre tre anni di guerra. E ciononostante l’intesa sottoscritta il 30 aprile delinea alcuni capisaldi della ricostruzione con minori ipoteche a stelle e strisce rispetto al testo che Zelensky aveva in valigia prima della lite in diretta mondiale alla Casa Bianca. In effetti è stato definito “un accordo win-win” dall’agenzia economica Bloomberg e addirittura “un ottimo risultato” dal primo ministro ucraino Denys Shmyhal, dunque si può dire che soddisfa pienamente le parti.
Il testo ruota attorno alla creazione di un fondo d’investimento per lo sfruttamento di 57 minerali critici, inclusi litio, terre rare, ma anche gas e petrolio.
Tale fondo sarà gestito congiuntamente, come ha sottolineato la vice premier Svyridenko, quindi senza la predominanza assoluta degli Stati Uniti inizialmente reclamata come precondizione da Trump. Non c’è nessun riferimento a un eventuale debito dell’Ucraina come contropartita per gli aiuti militari fin qui ricevuti da oltre Atlantico, mentre nelle bozze circolate in precedenza si era riusciti soltanto a ridurre questa cifra dagli iniziali 300 a 100 miliardi. Al fondo poi non affluiranno le entrate provenienti dalle infrastrutture e ciò, come sottolinea il Financial Times, mette al sicuro i due grandi player statali Ukrnafta e Energoatom.
Terzo elemento basilare, sottolineato dai giornali ucraini tipo Ukrainska Pravda come uno dei punti critici sulla governance su cui più intenso è stato il lavorio di tessitura diplomatica: gli Usa avranno accesso alle aste e alle gare per le nuove licenze di esplorazione a condizioni non meno favorevoli degli altri concorrenti ma gli investimenti e il trasferimento di tecnologie, lo sfruttamento delle risorse minerarie da parte del fondo congiunto non dovranno mettere a repentaglio il percorso di ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea. Quindi l’attività del fondo non dovrà entrare in contrasto con impegni internazionali presi da Kiev, tanto con la Ue, che con Banca mondiale e Fondo monetario internazionale. L’Ucraina resterà titolare delle licenze di estrazione mineraria, sarà cioè sempre Kiev a decidere dove e cosa estrarre dal sottosuolo, e contribuirà al fondo d’investimento con il 50% dei ricavi della vendita di royalties e licenze di estrazione. Gli Stati Uniti da parte loro contribuiranno eventualmente – cioè nel caso che la guerra continui come adesso – con nuove forniture di armamenti, munizioni, tecnologia militare e addestramento che potrebbero venire richiesti. Si sa già che Kiev in particolare chiede a Washington la fornitura di sistemi anti-aerei e anti-droni, ma tutta questa partita è ancora da vedere, anche in base alla risposta di Mosca e ai negoziati in mano all’inviato speciale di Trump Steve Witkoff.
Altri dettagli da precisare in merito all’accordo sui minerali critici ucraini riguardano il reinvestimento delle entrate del fondo nei primi dieci anni, che per gli ucraini dovrebbero essere unicamente convogliati nella ricostruzione post-bellica e poi l’esenzione dalle imposte per gli investimenti ulteriori che sia la parte ucraina sia quella statunitense intendessero implementare attraverso il fondo.
Di certo, al posto del famigerato articolo 5 del trattato Nato, a fare da deterrente per ulteriori appetiti russi sull’Ucraina conterebbero ora direttamente gli interessi geologici – più che geopolitici – degli Stati Uniti sulle risorse del Paese, come sottolinea il Wall Street Journal.