La crescita del Pil di oggi è sempre più realizzata a scapito del benessere futuro, e la crisi ecologica è un segno di come il mercato non possa funzionare come regolatore del sistema economico. Un’anticipazione dal libro “La trappola dell’efficienza”.
Il capitalismo ha cambiato il mondo di vivere di gran parte dell’umanità, migliorandone enormemente le condizioni materiali di vita.
Negli ultimi duecento anni, l’aumento del reddito globale e medio – oggi incomparabilmente maggiore di ogni altra epoca – è avvenuto in modo non uniforme per tutti i Paesi e le fasce sociali, beneficiando più alcuni di altri, sistematicamente, provocando una distribuzione delle ricchezze iniqua. L’aumento del reddito non è stato lineare e costante, ma soggetto a variazioni e a crisi che hanno contribuito a esacerbare le disparità. A ciò si aggiunga che lo sviluppo capitalistico industriale ha portato a un degrado ambientale sempre più insostenibile, all’origine della crisi ecologica attuale, di cui il riscaldamento globale è solo un aspetto.
Il nostro benessere, che era parso migliorare a ritmi vertiginosi negli ultimi decenni, ci appare compromesso se guardiamo a come sostenerlo. Vi sono tante storture nella distribuzione, nei meccanismi di funzionamento del sistema, nei presupposti per la sua riproducibilità, che è lo stesso capitalismo ad apparirci giunto a un punto critico. Oggi non siamo più sicuri che esso sarà in grado di produrre ulteriore benessere. Come se una parte del nostro benessere di oggi dovesse essere sacrificato se voglio garantircene uno domani. E ciononostante sembriamo procedere nella stessa direzione, pur consci dei problemi che si prospettano.
Questo libro si occupa di come siamo potuti arrivare a sacrificare il benessere futuro in cambio del Pil di oggi e di come uscirne. Il capitalismo è un sistema economico affermatosi negli ultimi due secoli e mezzo in questa parte del mondo. Un sistema che per consolidarsi ha plasmato la società e la politica, creando un ordine sociale. Il ruolo principale dell’economia teorica dominante (mainstream) è stato quello di fornire un’apologia di un ordinamento sociale spacciato per naturale, ma che è stato in grado di generare crisi ricorrenti, profondi disagi sociali e danni alla biosfera. La “naturalità” viene oggi usata come giustificazione per adagiarci sull’esistente, mentre è chiaro che occorre riformare il modo di produrre così da intervenire sulle crisi, le disuguaglianze e, con urgenza, sulla salvaguardia della natura.
Occorre una transizione economica verso un sistema produttivo che rispetti la natura, la società e si curi del benessere più che della crescita del Pil, senza chiedersi come, per chi e a quale costo. Da più parti si è provato a offrire una lettura alternativa, un diverso approccio alla teoria economica mainstream, adottando una lettura interdisciplinare che consentisse il superamento di una disciplina economica che ha perso ormai ogni contatto con la realtà, valutando le scelte sempre e solo secondo il metro del profitto da massimizzare o dell’efficienza economica.
Qui, piuttosto che indicare una via d’uscita dalla trappola evolutiva in cui la crescita del Pil, spesso predatoria della natura stessa, ci ha imprigionato, osserviamo che il capitalismo basato sull’economia di mercato sta distruggendo sia la natura che la società. Un altro sistema va dunque concepito e indagato. Ci dibattiamo in una trappola dell’efficienza che non ci lascia che una possibilità: uscirne al più presto mediante una transizione ecologica che ci conduca a un nuovo modo di produrre senza rovinare irreversibilmente la Terra.
Fino all’avvento del capitalismo, il prodotto totale era rimasto pressocché invariato, per secoli, proporzionalmente alla popolazione che lo produceva e a cui era destinato. Nel complesso, quanto l’umanità era in grado di produrre era appena sufficiente alla “sussistenza”, al suo mantenimento. L’aumento significativo del prodotto totale e pro capite – a disposizione di ogni abitante – ha cominciato a manifestarsi solo con l’avvento del capitalismo industriale, in alcuni specifici Paesi e per una serie di condizioni, non più solo la produzione necessaria alla sussistenza, ma ben oltre. Dalla fine del Settecento in avanti, il Pil – valutato in termini “reali”, cioè a prezzi costanti – ha iniziato a crescere esponenzialmente, prima in Inghilterra, poi in altri Paesi europei e in Nord America, grazie all’affermarsi del capitalismo industriale. La storia, come vedremo più avanti, ha riguardato i Paesi e le varie regioni del mondo in modo differenziato. Nei Paesi dove il capitalismo ha preso piede, l’evidenza mostra che una volta che il Pil inizia a crescere – allorché si mettono in moto certi “meccanismi” – e non si ferma più, cioè non registra periodi prolungati di stagnazione o di decrescita. Nel passato, lunghe stagnazioni del prodotto sono, invece, la normalità. La crescita del Pil si riflette in miglioramenti nelle condizioni di vita, con effetti positivi su molti aspetti dell’esistenza delle persone: dalla speranza di vita alla nascita, all’istruzione, alle condizioni di lavoro, alle retribuzioni. Nel tempo, i lavori faticosi e le ore lavorate si riducono, mentre la struttura dell’economia si trasforma, con una diminuzione relativa del valore prodotto dall’agricoltura e un aumento di quello industriale e dei servizi.
L’andamento del Pil mondiale per persona negli ultimi duemila anni mostra un andamento piatto fino alla Prima rivoluzione industriale (nella seconda metà del XVIII secolo) e una crescita progressiva da allora, più o meno costante. L’aumento del Pil è dovuto all’affermarsi del capitalismo industriale che – grazie alla continua introduzione di nuove tecnologie – ha consentito una crescita del prodotto più che proporzionale all’impiego di lavoro. Il sistema capitalistico ha messo in moto un meccanismo in grado di riprodursi e di svilupparsi grazie al continuo progresso tecnologico da esso stesso favorito, e si afferma dove si verificano le condizioni per il suo radicamento – dalla proprietà privata dei mezzi di produzione alla disponibilità di manodopera – e per la sua riproduzione. Disponibilità di materie prime e risorse naturali, da un lato, e contesto istituzionale e politico, dall’altro, ne hanno condizionato lo sviluppo che è così avvenuto in tempi e modi diversi in un numero limitato e circoscritto di Paesi. A oggi, il 10% della popolazione mondiale ha un reddito al di sotto della soglia di povertà assoluta, dall’80% che era nel 1800.
Come vedremo, l’affermarsi del capitalismo porta all’aumento del reddito e alla diminuzione della povertà, ma ciò avviene solo in un certo numero, anche se in via di espansione, di Paesi del mondo. L’economia capitalista ha avuto effetti positivi sulle condizioni di vita nel breve periodo, ma occorre distinguere – e lo faremo sempre nel corso del libro – tra crescita (un aumento quantitativo del reddito dovuto all’aumento dei fattori produttivi capitale e lavoro), sviluppo (un aumento quantitativo del reddito in presenza di innovazioni che consentono di ottenne più prodotto a parità di fattori di produzione impiegati), e benessere (relativo alle condizioni – multidimensionali – della vita). Sottolineiamo da ora che crescita e sviluppo hanno spesso comportato una riduzione del benessere.
La crescita del Pil, tuttavia, non è necessariamente collegata a una sua equa distribuzione, perché il Pil, quando cresce, non aumenta per tutti allo stesso modo. Bisogna distinguere tra produttori e percettori di reddito. Non tutti i produttori e non tutti i percettori beneficiano della crescita nella stessa misura. Il Pil mondiale, oggi, viene per i suoi tre quarti prodotto nei Paesi “a economia avanzata” (quelli capitalistici dalle origini), in buona parte dai Paesi “emergenti” e in piccolissima parte dagli altri Paesi, che sono quelli che chiamiamo “in via di sviluppo” e sono poi quelli dove il capitalismo non si è ancora affermato ed esteso, essendo stati per lo più relegati a produrre materie prime per le economie avanzate. Colonialismo e imperialismo, come vedremo, sono parte integrante della storia del capitalismo e della sua affermazione. Se volessimo rappresentare una mappa dei Paesi del mondo secondo il Pil, dove l’estensione di ognuno è proporzionale al prodotto, noteremmo che l’Africa sub-sahariana – con l’eccezione del Sud Africa – quasi non esiste, che l’America Latina è sottodimensionata, l’Asia è ipotrofica, mentre Stati Uniti, Europa e Giappone appaiono obesi. Asia, America Latina e Africa sono però i continenti dove risiede l’85% della popolazione mondiale. Ovvero, il 75% del reddito mondiale è prodotto dal 15% della popolazione.
La stessa disomogeneità vale all’interno dei Paesi. Si ha infatti che alla quota della popolazione più ricca, ben ristretta, va generalmente la quota maggiore del reddito prodotto: pochi ricchi possiedono quasi tutta la ricchezza e molti poveri ne hanno pochissima. E ciò è vero tanto per i Paesi a economia avanzata quanto per gli altri. Il capitalismo si afferma grazie a un sistema che consente un enorme e continuato aumento del reddito, che però non beneficia tutti allo stesso modo. Questa non è però il suo solo “difetto”.
Lo sviluppo industriale è potuto avvenire anche grazie al vasto sfruttamento delle risorse naturali. In molti casi ciò ha portato al degrado ambientale – e ha prodotto un aumento della concentrazione di anidride carbonica, metano e altri gas – responsabili dell’“effetto serra” all’origine del riscaldamento globale. Se osserviamo come viene distribuita la produzione di CO2, notiamo la sua quasi perfetta sovrapponibilità con la distribuzione mondiale del reddito – ovvero i Paesi più ricchi sono anche i maggiori inquinatori. A differenza di questa però, l’inquinamento colpisce tutti, in quanto intacca la biosfera.
Le variazioni delle temperature ci sono sempre state, in periodi anche lunghi, ma contenute e graduali. Viceversa, negli ultimi decenni si è registrata una impennata molto veloce delle stesse. È il fenomeno del riscaldamento globale dovuto, secondo la stragrande maggioranza degli studiosi, all’attività dell’uomo che ha modificato l’ambiente con l’inquinamento modificando la biosfera. I tempi della natura sono assai più lenti di quelli dell’economia e per questo motivo l’aumento delle temperature assomiglia a quello che è stato definito come “il bastone da hockey” dovuto a un aumento accelerato nell’ultimo secolo.
La crisi ambientale è la grande criticità che il nostro tempo conosce, potenzialmente più grave, per l’impatto che è destinata ad avere, di ogni crisi economica. La crisi ecologica è così rilevante che rischia di stravolgere il nostro modo di vivere. Se i problemi legati alla sovrappopolazione e alla limitata disponibilità di risorse ci porranno vincoli alla crescita, la stessa metrica del Pil che non tiene conto dell’inquinamento e dell’impatto ambientale deve essere riconsiderata. Grande parte delle emissioni di gas responsabili del riscaldamento globale viene dal consumo di combustibili fossili per la generazione di energia. Se anche riuscissimo a ottenere un Pil prodotto da energia a costo zero – come nella fusione nucleare – potremmo uscire solo in parte dalla trappola evolutiva.
La parte “capitalistica” rimarrebbe intatta e con essa lo sfruttamento delle risorse naturali con l’annesso degrado ambientale e degli ecosistemi. Il sistema capitalistico presenta questo e altri problemi a esso intimamente legati: in primis, la disoccupazione e la distorta distribuzione del reddito. Cambiare tecnologie è solo un primo passo per passare a un uso più oculato delle risorse, visto che il capitalismo è basato sulla nozione che si debba produrre sempre di più: senza crescita non c’è profitto, che è l’incentivo a produrre. Questo “credo” si deve al fatto che il maggiore prodotto equivale a ottenere più alti profitti. Non è un caso che dagli anni Ottanta del secolo scorso – pur in presenza di aumenti di reddito e produttività – i salari sono rimasti fermi e la disoccupazione si è mantenuta ben al di sopra dei livelli considerati fisiologici. Occorrerà poi riflettere sulla reversibilità dei danni che stiamo provocando alla natura (e sul restauro delle condizioni di vita originarie), sulla sostenibilità del progresso e di come allontanarci dal punto di non ritorno.
La crisi ecologica è un segno di come il mercato sia fallito come regolatore del benessere, ma anche dei limiti che ci troviamo a fronteggiare.
Pier Giorgio Ardeni, Mauro Gallegati, La trappola dell’efficienza. Perché la trasformazione del capitalismo è necessaria, LUISS, 2024.