Si parla molto di tassa degli extraprofitti bancari, bisognerebbe parlare di più – e intervenire – sulla finanza speculativa che è sempre più centrale nel funzionamento delle banche e mina l’altra funzione, quella di finanziare l’economia reale.
Banche ed attività speculativa
Le luci mediatiche si accendono molto spesso a livello nazionale ed internazionale sul settore bancario e su quello, in senso lato, finanziario. Così nell’ultimo periodo abbiamo seguito con attenzione la crisi di alcune banche statunitensi, mentre in questi giorni al centro dei riflettori c’è la questione della tassa italiana sugli extraprofitti degli istituti. Ma ci sono altri temi, molto importanti, sui quali i media non si sono soffermati di recente con molta attenzione. Così ad esempio quello relativo all’attività speculativa degli istituti.
Tranne che per i titoli meno rischiosi in cui si punta al mantenimento del capitale ed al conseguimento degli interessi, l’attività speculativa appare intrinseca all’attività di intermediazione finanziaria in titoli, svolta dalle banche e da altre istituzioni, attività in cui si opera sostanzialmente per ottenere delle plusvalenze.
La plusvalenza può derivare o da un investimento finalizzato a cogliere le opportunità presenti sui mercati oppure, in alternativa, dal cercare soluzioni straordinarie, creando da sé le situazioni, indirizzando e guidando i mercati stessi, se non addirittura sostituendosi a questi. La finanza nel primo caso investe nell’economia reale, nel secondo investe su sé stessa e crea gli investimenti.
Nel primo caso la speculazione non è veramente tale, bensì è ricerca di utili come in qualsiasi attività economica, nel secondo è invece tale, in quanto frutto di un’attività di finanza pura, vale a dire di ricerca di utili da sé stessa.
E’ la finanza che in tale caso costruisce direttamente la situazioni da utili e così offre ai risparmiatori un’attività finanziaria di creazione autonoma di rischi e di investimenti. Con la speculazione la finanza diventa attività non più di intermediazione tra l’economia reale e il risparmio, ma di creazione di elaborazione e gestione di investimenti completamente in autonomia rispetto a quello che offre l’economia reale.
Per una finanza orientata all’economia reale
Per inciso la speculazione delle banche non è oggi qualcosa di episodico, come si continua a pensare, ma rappresenta un’intera operatività, imprenditoriale e produttiva, con la conseguenza che il suo rischio non è a carico solo di incaute controparti, ma è un elevamento del rischio complessivo a carico del sistema. Essa non è più frutto di individui spregiudicati e spesso malvagi, ma è uno dei “core business” della banca, anzi il principale, che domina e bacchetta gli altri. La speculazione entra nel DNA della banca e ne diventa la componente principale. In tal modo si crea un’attività parallela, in grado di condizionare i mercati e l’economia reale, alterandola.
Ed essa, peraltro, non è suscettibile di controllo in quanto è autonoma da ogni elemento ed anzi, con la sua connessione con la creazione di moneta, si impone alla politica economica. Le “ratio” tipiche della vigilanza bancaria che la hanno sempre contraddistinta, sono del tutto irrilevanti.
La speculazione delle banche è qualcosa di nuovo, in quanto con essa le banche creano un’economia alternativa che modifica dall’interno il modello capitalistico, contribuendo a creare il “capitale finanziario”. Il vero nodo allora è quello di vietare la speculazione non episodica e non di grande peso, non per tornare alla banca tradizionale, ma per fondare una finanza pura produttiva e non speculativa.
La finanza produttiva orientata all’industria non sarebbe che la compiuta realizzazione del ruolo della finanza stessa, depurato dagli elementi negativi, che invece sino ad oggi hanno preso il predominio ed hanno inquinato l’economia e la società. Detto in altro modo, il ruolo produttivo della finanza consiste nella selezione degli investimenti finanziari ottimali nell’interesse della stessa economia reale.
La promozione dell’economia reale non è tanto un’istanza di politica economica od anche esigenza di mera correttezza contro gli eccessi della finanza, con il che si rientrerebbe in un’ottica di giudizi di valore e di merito e pertanto opinabili. Al contrario, essa è una valutazione di rigore economico e di salvaguardia della stabilità e della solidità della finanza, il che rende necessaria una verifica del suo operato all’esterno e non solo al proprio interno- il che si risolverebbe in un’ottica di autoreferenzialità, per cui la finanza sarebbe valida se aumenta il proprio spazio, senza che ci si preoccupi di chi sia il destinatario della sua operatività.
E’ certo che la necessità di tutelare il risparmio, secondo l’articolo 47 della Costituzione, rende giuridicamente possibile un intervento di rimozione dell’autoreferenzialità o comunque almeno di restrizione anche rilevante del suo ambito. Ma da qui a pretendere che la finanza provveda in autonomia ad autolimitarsi sembra eccessivo e frutto di un approccio all’economia non scientifico. La replica appare agevole. Si è ormai arrivati ad un punto di mancata sopportabilità da parte dell’economia degli oneri relativi al dominio della finanza: basti pensare all’immensa molte di strumenti finanziari abnormi in circolazione, con contestuale restrizione dei crediti e degli altri investimenti finanziari tipici.
Nel merito, alla fine, il ruolo produttivo della finanza deve consistere nella selezione in senso ottimale degli investimenti finanziari nell’interesse della stessa economia reale.
Il caso della banca d’affari
In tale quadro un caso particolare appare costituito dalla banca d’affari, che colloca sul mercato titoli dei propri committenti. Le scelte fatte nell’interesse degli emittenti non appaiono sufficienti ed esse devono snodarsi nell’interesse dei clienti, cosa che si verifica soltanto se le imprese in cui si spingono i clienti ad investire sono solide. Bisogna in altre parole impedire che l’interesse soggettivo degli emittenti leda un’evoluzione consapevole e costruttiva della finanza. La natura ottimale della gestione non è solo imposta dalla normativa a tutela del risparmio, ma si rivela anche rispondere all’interesse delle banche di affari a valorizzare e ad alimentare la propria base di insediamento stabile nell’economia reale e di sua guida.
Quando l’interesse del cliente è in conflitto con quello dell’azienda emittente o con quello dell’offerente di titoli sul mercato secondario, questi ultimi attori vengono privilegiati perché lo richiede l’essenza della banca di affari, con la conseguenza che si viene a creare una discrasia tra la normativa ed andamento concreto dei mercati finanziari, con questi ultimi che alla fine prendono il sopravvento.
Quando l’interesse del gruppo di comando dell’impresa emittente è poi in contrasto con quello oggettivo dell’impresa stessa è il primo a dover essere sacrificato in quanto è nella corretta essenza delle banche d’affari a richiederlo, sotto pena di creare altrimenti un modello di funzionamento alla lunga insostenibile.