Ventidue autorevoli studiosi italiani e internazionali. Un obiettivo comune: dare forma al lessico della «sinistra che verrà». Una riflessione collettiva sui punti di crisi e di ambiguità del presente, sulle mutazioni delle società in cui viviamo, sugli strumenti per delineare una cultura politica che sappia confrontarsi con le sfide del cambiamento.
Pubblichiamo l’introduzione di Giulio Marcon al volume “La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare”, a cura di Giuliano Battiston e Giulio Marcon, Minimum Fax editore
La cultura politica della sinistra va aggiornata e ricostruita, anche attraverso un lessico nuovo, per «la sinistra che verrà». Questo libro a più voci rientra nel tentativo di ricostruire un’identità, una cultura politica e una bussola per chi si riconosce in un campo – politico, ideale, culturale – che ha bisogno di essere ridefinito, animato e proiettato sulle nuove sfide poste dai processi degli ultimi trent’anni: la globalizzazione, economica e finanziaria, la digitalizzazione e la robotizzazione del sistema produttivo, la trasformazione del lavoro e delle relazioni sociali, l’esplodere dei nazionalismi e dei populismi e la radicale mutazione (e involuzione) della politica e della democrazia.
Un tentativo ancora più urgente dopo la sconfitta del blocco comunista con il 1989 e della sua alternativa socialdemocratica e riformista, travolta dall’avanzata del modello neoliberista che a partire dagli anni Ottanta ha colonizzato l’economia, la società, l’ambiente, la cultura. Negli ultimi decenni siamo passatida un’«economia di mercato» a una «società di mercato». Per dirla con Karl Polanyi nella Grande trasformazione (1944), siamo passati definitivamente dalla fase in cui il mercato era una funzione sociale (un modo di organizzarsi della società) all’incorporazione della società nel mercato, che ne regola valori, ritmi, relazioni. Una società di mercato alla quale siamo giunti dopo la conclusione di quella che Luciano Gallino ha definito a partire dagli anni Ottanta una sorta di lotta di classe capovolta: non degli ultimi contro i privilegiati, dei poveri contro i ricchi, ma degli oppressori contro gli oppressi, degli sfruttatori contro gli sfruttati. E così la quota di ricchezza detenuta dai capitali è cresciuta e quella dei salari diminuita, mentre l’indice di disuguaglianza si è ulteriormente accentuato. Alla fine di questa lotta di classe capovolta i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri, i potenti hanno avuto più potere e i deboli sono diventati sempre più impotenti.
Si è affermato (ancora qui, Gallino) il cosiddetto finanzcapitalismo, che potrebbe avere come rappresentante moderno quell’antico mostro mitologico di Gerione di cui Dante disse nell’Inferno: «Ecco la fiera con la coda aguzza / che passa i monti e rompe i muri e l’armi! / Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!» Descrizione del mostro che ben si attaglia non solo al milieu degli usurai del XVII canto dell’Inferno, ma anche alla finanza dei giorni nostri: insidiosa, più forte degli eserciti, attraversa le frontiere e infesta il mondo con le sue nefandezze. Il capitalismo si è radicalmente trasformato (tema affrontato in alcuni dei saggi di questo volume) e la sua finanziarizzazione (espediente ricorrente nelle situazioni di crisi, come ci ricordano Fernand Braudel e Giovanni Arrighi) allude oggi alla vittoriosa riproposizione di un’egemonia (anche culturale), e di nuove gerarchie di potere, ricomponendo identità e processi sociali e spazzando via il «compromesso fordista» del Novecento. Ma soprattutto ricostituendo lo spazio di una nuova espansione economica e commerciale dai caratteri inediti, sostenuta oltre che dai processi di finanziarizzazione (con la pressoché completa liberalizzazione della circolazione dei capitali negli ultimi trent’anni) anche dalla svalutazione del lavoro e dai processi di digitalizzazione e di vertiginosa innovazione tecnologica della produzione. A partire dagli anni Ottanta, la sinistra è stata colta assolutamente di sorpresa di fronte a questa autentica «mossa del cavallo» e non sono valse «terze vie» e «ulivi» nazionali o planetari a riportare in gioco una prospettiva di alternativa a questa onda lunga, iniziata trentacinque anni fa.
La sinistra è in crisi dentro e fuori l’Europa. La sinistra cosiddetta «riformista» – socialdemocratica e moderata – è scomparsa in Grecia, ridotta al lumicino in Francia, sconfitta in Spagna e in Germania, in grandissima difficoltà in Italia. In Gran Bretagna il Labour, per rinascere, ha dovuto affidarsi a un leader radicale e combattivo come Jeremy Corbyn. In Europa la vulgata socialdemocratica è stata subalterna al paradigma delle politiche neoliberiste: non l’ha messo in discussione, l’ha soltanto temperato. A macchia di leopardo la sinistra radicale o quella che ha promosso politiche alternative ai dogmi neoliberisti ha dimostrato maggiore vitalità. Da Syriza in Grecia a Podemos in Spagna, dal Labour in Gran Bretagna a Mélenchon in Francia fino al governo di «alternativa di sinistra» in Portogallo esiste un campo largo di esperienze, soggettività, culture che danno un senso a una sinistra capace di rappresentare una società che chiede giustizia e uguaglianza. Ma c’è ancora molta strada da fare. Soprattutto di fronte alla crescita generalizzata dei movimenti cosiddetti populisti, xenofobi e nazionalisti che oggi sembrano rappresentare la reazione più significativa (da destra) alle trasformazioni di una globalizzazione che ha impoverito la società, svalutato il lavoro, eroso le identità.
Concedendoci una parentesi sulla stretta attualità, un capitolo a parte meriterebbe l’Italia con un Pd che negli ultimi anni – sotto la guida di Matteo Renzi – ha portato avanti politiche di destra (insieme alla destra), ha diviso il sindacato e ha alimentato la assurda e fallimentare prospettiva di un populismo di segno buono da contrapporre a quello cattivo di Salvini, Grillo e Berlusconi. Tutta l’agenda neoliberista europea dell’austerità ha trovato in Renzi e nel Pd dei fedeli seguaci: è stata ridotta la spesa pubblica (in particolare la spesa per investimenti pubblici, scuola e sanità e con un taglio ai trasferimenti agli enti locali di oltre cinquanta miliardi di euro); è stato precarizzato il mercato del lavoro (con il Jobs Act e l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori); sono stati svenduti i beni pubblici (con un programma di settanta miliardi di privatizzazioni) e sono stati dati in mano al mercato (invece che alle politiche pubbliche) i soldi – con gli sgravi fiscali – per far ripartire la crescita, come in Europa con il piano Juncker. Il Pd sotto la guida di Renzi ha rivendicato come obiettivo prioritario il taglio delle tasse (come Reagan e la Thatcher negli anni Ottanta e Tremonti in Italia negli anni Novanta), salvo tagliarle anche ai ricchi con l’abolizione della tassa sulla prima casa, sulle imbarcazioni di lusso e introdurre la flat tax per attirare i «paperon de’ paperoni» anche in Italia. In questo contesto in Italia la sinistra – nel complesso – è stata emarginata nella sua debolezza dalla incapacità di elaborare un progetto alternativo e schiacciata da tre processi convergenti: la crisi del Pd (con la crescita dell’astensionismo come effetto collaterale), l’affermazione del MoVimento 5 Stelle (che ha eroso lo spazio per la nascita di una Podemos italiana) e l’assenza di movimenti sociali capaci di dare spinta al processo riaggregativo della sinistra, che con le elezioni del 2018 sembra volere riaggregarsi nella dimensione unitaria, ancorché precaria, di Liberi e Uguali per recuperare il terreno perduto.
Dopo quarant’anni di dominio dell’ideologia e delle politiche neoliberiste bisogna capovolgere il paradigma che abbiamo sin qui subito. Le politiche neoliberiste hanno svalutato il lavoro come fattore competitivo nello scenario di competizione globale; la sinistra deve invece ridare dignità al e ripensare il lavoro (certamente in forme e pratiche diverse) come fattore di liberazione individuale, di identità sociale e di coesione comunitaria. Le politiche neoliberiste hanno messo al centro il mercato e il privato; la sinistra deve ricostruire una cultura dei beni comuni e del «pubblico». Il neoliberismo ha rilanciato la centralità dell’impresa e dell’individuo nel suo interesse privato; la sinistra deve rivendicare la centralità della società e della persona nel suo contesto comunitario. Il neoliberismo ha mercificato i diritti sociali; la sinistra deve tornare a demercificare – come è successo storicamente con il welfare – la sanità, l’istruzione, la previdenza. E l’ambiente, che è stato usato come «merce», deve venire considerato come un «bene comune» da accudire e salvaguardare.
I temi tradizionali della sinistra vanno radicalmente aggiornati e innovati. Il lavoro fordista non esiste più. Globalizzazione e innovazione tecnologica (e in particolare robotizzazione e digitalizzazione) costringono a ripensare la vita di ciascuno e in particolare il lavoro: in prospettiva, per essere di tutti sempre di più il lavoro va redistribuito (con la riduzione dell’orario), accompagnato dall’introduzione di un reddito sociale complementare e dalla riorganizzazione di attività socialmente utili (si veda qui lo studio di molti anni fa di Giorgio Lunghini: L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali). Lo «sviluppismo» o l’illimitata «crescita delle forze produttive» è archeologia, residuo fossile per la sinistra: Serge Latouche ha svelato gli inganni della narrazione della crescita e già negli anni Ottanta Enrico Berlinguer diceva che il capitalismo conosce solo «indici quantitativi astratti» e ci invitava a ragionare su «cosa produrre, cosa consumare». D’altronde Thomas Piketty ci ha dimostrato, dati alla mano, che gli alti tassi di crescita del «trentennio glorioso» sono una eccezione unica nella storia del capitalismo. Il tema allora è la «qualità sociale ed ecologica» (Giorgio Ruffolo, La qualità sociale. Le vie dello sviluppo) dei consumi, delle produzioni, del lavoro, nel contesto della redistribuzione sostenibile di ricchezza e risorse naturali, materiali e immateriali. E per fare un ultimo esempio, non solo gli Stati nazionali sono o in una fase di radicale ridefinizione delle loro funzioni o in profonda crisi (verso l’alto, la globalizzazione e verso il basso, il ritorno delle identità locali), ma con essi è entrato in grande sofferenza anche il concetto di pubblico-statale e quindi l’idea della realizzazione delle politiche della sinistra attraverso gli strumenti tradizionalmente conosciuti. Da una parte l’introduzione e il riconoscimento della categoria dei «beni comuni» e dall’altra l’idea della loro realizzazione non attraverso la dimensione statale o istituzionale, ma con la costruzione di una dimensione sociale e pubblica-non statale (sussidiarietà, auto-organizzazione, comunitarismo locale) costringono la sinistra a un ripensamento radicale delle sue pratiche e della sua cultura politica secolare.
La sinistra rappresenta il campo del cambiamento. Si possono usare certo anche altre categorie – come alto/basso, oppure esclusione/inclusione – e utilizzare al posto di «sinistra» un altro vocabolo, ma la sostanza non cambia. E per noi le vecchie parole sono sempre utili a disegnare la scelta di campo di chi si dice di sinistra: l’uguaglianza contro la disuguaglianza, i diritti contro il privilegio, la giustizia contro l’ingiustizia, la libertà contro l’autoritarismo, la pace contro la guerra, l’ambiente contro la sua riduzione a merce, il welfare contro la sua trasformazione in mercato, i beni comuni contro le privatizzazioni.
Naturalmente, nel corso degli ultimi decenni, altri temi si sono imposti – e quindi altri vocaboli e parole chiave – dentro la cornice di una cultura politica all’altezza delle nuove identità e soggettività: la questione ecologica e il modello di sviluppo, la dimensione di genere, il rapporto tra crescita e decrescita, la declinazione della libertà nelle libertà, il rapporto tra stato e territorio, ecc. La riconversione ecologica dell’economia, o più in generale la «conversione ecologica», interroga la sinistra sui temi del modello di sviluppo. La dimensione di genere – la differenza – richiama il superamento del modello patriarcale e maschile della politica e del potere fondato su un codice escludente e generato da atavici rapporti di dominio e di violenza. Il rapporto tra stato nazionale (in crisi) e territorio che invoca autonomia richiama l’idea (tutta da sviluppare e articolare) di una democrazia diversa, includente, dal basso, municipalista, federativa, così come la auspicava Silvio Trentin. La declinazione al plurale delle libertà invoca il superamento di una tradizionale concezione formale e difensiva della libertà (libertà da) nella direzione della sua contaminazione con due concetti, senza i quali la libertà positiva non esiste, quello di liberazione e quello di uguaglianza, come in fondo ci ricorda l’articolo 3 della Costituzione.
Norberto Bobbio in Destra e sinistra individua nell’uguaglianza il concetto (il valore, la politica) su cui si costruisce il discrimine tra destra e sinistra. È a fondamento della nostra Costituzione (articolo 3) e informa ogni proposta e progetto che sia di sinistra: l’uguaglianza deve improntare ogni ambito – economico, sociale, politico, giuridico, civile – della nostra convivenza civile. E non è un caso che in quarant’anni di dominio neoliberista le disuguaglianze economiche, sociali e politiche siano enormemente aumentate. Il problema non è semplicemente la crescita della povertà. Richard H. Tawney, un esponente fabiano (quindi non un estremista) degli anni Venti del secolo scorso amava ripetere: «Quello che i ricchi chiamano il problema della povertà, per i poveri è il problema della ricchezza». Il tema è quello della redistribuzione della ricchezza o come più moderatamente si diceva una volta «la politica dei redditi». E proprio Thomas Piketty nel Capitale nel XXI secolo ha ricordato che in questa accentuazione delle disuguaglianze conta enormemente da una parte il diverso tasso di accumulazione e valorizzazione tra lavoro e rendita/capitale (che cresce molto di più del lavoro) e dall’altra il peso della trasmissione per via ereditaria delle posizioni di vantaggio (economiche, ma non solo) che consolidano e accrescono enormemente le disuguaglianze. E allora bisogna intervenire a monte, attraverso un diverso modello di accumulazione, di produzione e in definitiva un nuovo sistema economico, e a valle, con politiche redistributive prodotte dal welfare e da misure fiscali progressive.
È una cultura politica che deve essere aggiornata e ricostruita. E a questa si deve accompagnare un lessico nuovo. Perché le parole contano. In questi anni l’ideologia neoliberista ha contaminato non solo percezioni e culture, ma anche le parole e il modo di esprimersi. Non ci sono più i cittadini, ma i consumatori; non più i diritti, ma i bisogni; non più il welfare, ma i mercati sociali; non più le prestazioni ospedaliere, ma i consumi sanitari; non più la proposta ma l’offerta politica; non più il mercato del lavoro, ma il mercato dei lavoratori. Abbiamo bisogno di decolonizzare l’immaginario e riconquistarci le parole che l’ideologia del mercato ci ha sottratto.
Ricostruire un lessico per la sinistra che verrà è un compito enorme e fondamentale. Questo libro a più voci vuole appunto essere un piccolo contributo alla ricostruzione di una cultura politica della sinistra. Che significa anche la capacità di farsi capire e di trovare una sorta di connessione sentimentale con le speranze del popolo e le sue profonde aspirazioni. La globalizzazione, le guerre, i flussi migratori, le trasformazioni del lavoro provocano paura e insicurezza, che in questi anni hanno prodotto fenomeni sociali di destra: populismo, razzismo, egoismo sociale. Compito della sinistra è di trasformare queste paure in una spinta verso il cambiamento positivo, contrapponendo l’uguaglianza alla disuguaglianza, la giustizia all’ingiustizia, i diritti al privilegio, il tutti ai pochi.
Ricostruire la cultura politica della sinistra fa il paio con la capacità di osmosi, di empatia, di connessione umana con la sofferenza e le speranze della gente che si vuole rappresentare. L’attesa della povera gente era il titolo di un libro di Giorgio La Pira che bene farebbe il paio con il film The Spirit of ’45 (2013) di Ken Loach, che documenta le speranze del popolo inglese alla fine della seconda guerra mondiale. Come nel libro di La Pira, così nel film di Ken Loach si vede che la politica (e la sinistra) vince quando sa interpretare questa domanda che viene dal basso. Nel film di Loach c’è la vecchietta che dice: ho votato Labour perché così avremo il servizio sanitario nazionale e per la prima volta potrò curarmi i denti e avere gli occhiali gratis. L’uomo di mezza età afferma: ho votato per i laburisti, perché così quando smetterò di lavorare avrò una pensione pubblica. La donna che viveva in una catapecchia dice: sto con i laburisti perché così avremo un programma di edilizia popolare e potrò vivere in una casa decente. Churchill – l’eroe della seconda guerra mondiale che non seppe capire quello che la gente voleva: non il trionfalismo della vittoria bellica, ma risposte ai problemi materiali – perse le elezioni. A vincerle fu un leader laburista meno esuberante, un po’ noioso e non altrettanto noto: Clement Attlee, primo ministro del Regno Unito dal 1945 fino al 1951.
Questo dovrebbe fare la sinistra: pratiche sociali e politiche capaci di riconnettersi con la «povera gente», accanto alla ricostruzione di un lessico adeguato ai tempi (conseguenza di un punto di vista critico nuovo, di una chiave di lettura e di un progetto capace di innovazione). Contano in questo senso non solo le politiche (comprendere quali sono le speranze, i bisogni) e le pratiche, ma anche – in tempi di biopolitica – l’esempio e la testimonianza e con queste la sperimentazione di relazioni e forme nuove dell’agire sociale: dal nuovo mutualismo al fare comunità, dagli stili di vita sostenibili ed ecocompatibili alla sperimentazione della gratuità della dimensione collettiva e pubblica. La sinistra deve tornare a interpretare l’«attesa della povera gente» e più nello specifico le speranze di chi è precario o non ha lavoro, di chi vede calpestare i propri diritti, di chi va avanti (quando succede) solo per meriti e non per le sue «relazioni», di chi pensa che ciò che è pubblico è quello che è di tutti e non ciò di cui ci si può appropriare per fini privati.
Ridefinire un lessico per la sinistra è in qualche modo prefigurarne un progetto, una prospettiva e un obiettivo. È questo il contributo che questo lavoro collettivo vuole proporre.