La trasformazione della cultura economica della sinistra dal dopoguerra ad oggi. Arriverà l’ennesima rimozione, quella degli anni del liberismo?
Queste pagine, tratte da un volume pubblicato di recente (1), sono destinate a coloro che si pongono il problema dell’identità della sinistra, e in particolare della visione dell’economia in essa implicita. Guardare al passato, anche non recente, può aiutare a capire il presente e soprattutto a immaginare il futuro in un momento in cui la crisi finanziaria rimette in discussione non solo il modello di crescita economica ma anche il quadro culturale di riferimento. In cui diventa più urgente ritrovare le ragioni della sinistra intorno alle quali costruire un progetto economico che sappia coniugare le ragioni dei più deboli con gli interessi di breve e di lungo periodo presenti in una società avanzata. Ma il ripensamento dei punti di riferimento deve essere fatta in maniera cosciente ed esplicita. Quello che si deve evitare è che alla rimozione del marxismo degli anni ottanta segua un analogo processo di rimozione della lunga stagione del liberismo. Se si vuole arrivare a definire una proposta di convivenza civile e di crescita economica, alternativa a quella della destra, è indispensabile fare i conti con la propria storia. Riflettere sul perché la sinistra si sia avviata su determinate strade e sul come i momenti di svolta si siano realizzati.
Gli anni del dopoguerra. 1945 – 1949
La lettura dei problemi dell’economia italiana che accomuna PCI e PSI è semplice ma anche efficace. Il sistema produttivo del nostro paese, in quanto espressione degli interessi dei grandi gruppi monopolistici, non poteva essere in grado di assicurare la crescita economica di lungo periodo. Con la conseguenza di un alternarsi di brevi fasi di sviluppo con crisi sempre più profonde che avrebbero portato, presto o tardi, al collasso della struttura produttiva e, più in generale, del capitalismo nel nostro paese. L’approccio, esplicitamente ideologico, costituisce un forte elemento di identità ma sancisce anche la centralità della politica rispetto all’economia. In questa lettura infatti i cambiamenti sul piano della struttura economica sono possibili solo se si ridimensiona la forza dei gruppi monopolistici. Non c’è nessuno spazio per una cultura della socialdemocrazia.
Gli anni dell’isolamento. 1950-1959
L’interpretazione dei limiti dello sviluppo economico italiano viene riproposta senza grandi arricchimenti pure in una realtà che si avvia verso cambiamenti profondi. La rottura con la cultura economica ufficiale rende estranea alla sinistra italiana tutta l’esperienza del riformismo che si sta sviluppando in quegli anni nei paesi avanzati, mentre il clima di forte contrapposizione ideologica rafforza la convinzione di una centralità della politica rispetto all’economia. Il risultato è che, di fronte allo sviluppo impetuoso dei primi anni del miracolo economico, i due partiti appaiano sostanzialmente sorpresi. Nell’ultima parte degli anni cinquanta cominciano a delinearsi differenze significative tra le posizioni del PCI e quelle del PSI per quel che riguarda il MEC con i socialisti favorevoli ed i comunisti ostili (il MEC è visto in chiave di contrapposizione al mondo comunista) e per quel che riguarda il ruolo dell’impresa pubblica considerata dai socialisti un possibile strumento di cambiamento e dal PCI un modo di sostenere un capitalismo in crisi.
Gli anni del cambiamento. 1960-1976
Il paese sembra aprirsi ad una nuova stagione in primo luogo sul piano culturale. Sono soprattutto i socialisti, vicini ormai a posizioni di governo, che si muovono alla ricerca di una identità più vicina a quella delle socialdemocrazie europee. Il loro progetto economico, ponendosi l’obiettivo di creare nuove condizioni di contesto per superare i limiti dell’apparato produttivo e consentire al mercato di funzionare meglio, considera cruciali le riforme di struttura e vede la programmazione come lo strumento con cui si riesce a far dialogare le esigenze di breve periodo con una politica di riforme. Viene per la prima volta meno (sia pure per una parte del partito minore della sinistra) la tradizionale ostilità verso il riformismo. Le difficoltà incontrate dai primi tentativi di politica delle riforme aprono un dibattito interno ai due partiti. Nei socialisti si comincia a delineare una divaricazione tra una componente “filosofica” che tenta di superare le difficoltà rilanciando ed arricchendo il progetto ed una seconda componente “manageriale” che, coinvolta direttamente nella gestione dell’economia, guarda al dibattito sul riformismo con crescente fastidio, come ad una forma di fuga dai problemi reali che il paese si trova a dover gestire. Il nuovo approccio del PSI alle questioni economiche agisce come un freno sulla spinta al rinnovamento che pure comincia a delinearsi, in una logica non troppo diversa da quella dei socialisti. Anche nel PCI infatti emerge una divaricazione tra una linea pragmatica ed una più “ideologica”. Ma il problema di dover difendere la propria identità in concorrenza con il PSI fa sì che le due linee tendano a sovrapporsi più che a contrapporsi. A costituire due livelli di riflessione sostanzialmente non comunicanti tra loro. Da un lato infatti viene riproposta la visione tradizionale dei limiti dello sviluppo italiano, in una forma peraltro con gli anni sempre più “mitica”, dall’altro ci si comincia a misurare con i problemi posti alla politica economica, abbandonando nei fatti i pregiudizi che avevano tenuto lontano il partito dal pensiero economico del dopoguerra. Verso la metà degli anni settanta questi cambiamenti diventano evidenti quando le grandi imprese, cioè quel capitale monopolistico che era stato considerato l’avversario storico del PCI, vengono individuate come i compagni di strada per il rinnovamento del paese. Siamo vicini agli anni dell’appoggio esterno dei comunisti al governo.
Gli anni della rottura a sinistra. 1977 – 1991
La divaricazione tra le posizioni dei due partiti e all’interno degli stessi si accentuano. Nel PSI, in particolare, l’anima manageriale che, con la segreteria Craxi, controlla la maggioranza del partito, costruisce un proprio progetto, esplicitamente in discontinuità con le posizioni storiche della sinistra. Di fronte ai limiti di questa cultura, si afferma la necessità di guardare altrove. La stessa idea di riformismo, cara alla componente filosofica del PSI, viene ribaltata. Il riformismo deve trasformarsi “da prassi rivolta in primo luogo a migliorare i meccanismi di distribuzione della ricchezza a prassi diretta a migliorare i meccanismi di produzione della ricchezza” diventando un processo sperimentale che mantiene come punto di riferimento forte il mercato e l’efficienza. La parola d’ordine diviene la “modernizzazione” che vuol dire contemporaneamente riforma dello stato e suo ridimensionamento. La questione dell’equità tende invece ad assumere un ruolo marginale, nonostante l’acceso dibattito che coinvolge intellettuali della sinistra come Bobbio.
Per quel che riguarda il PCI, questi sono anni di grande fervore resi tuttavia difficili da un lato dalla necessità di competere con il PSI e quindi di difendere la tradizionale identità del partito e, dall’altro, dal bisogno di aprirsi alla cultura economica. Il dibattito che si apre per dare contenuti alla pretesa “diversità” del PCI segnala la coscienza di un bisogno di cambiamento che tuttavia si concretizza nella confusa proposta della “terza via” (rilevante perché fa emergere tutto lo scetticismo del PCI verso le socialdemocrazie europee ancora all’inizio degli anni ottanta), e in quella di “Afferrare Proteo” significativa perché fa riemergere una cultura del mercato tradizionalmente latente nel PCI, sia pure in funzione antimonopolistica. Fin quasi alla fine degli anni ottanta l’atteggiamento del PCI sulle questioni economiche si caratterizza per una forte presa di distanza dalle posizioni dei socialisti e si esprime anche in un avvicinamento alle posizioni della Banca d’Italia ed alle preoccupazioni da questa espresse sulla situazione economica italiana. Quando si ha la svolta, questa è radicale e per certi versi improvvisa. Di fronte alle ripetute sconfitte elettorali, il PCI decide di sposare il progetto socialista di modernizzazione. Nel giro di pochi mesi si abbandona una identità troppo a lungo difesa e ci si avvia su una strada completamente diversa. Come per i socialisti, l’istituzione di riferimento diviene il mercato inteso come una istituzione che ha regole proprie che non possono essere disattese dalle politiche di intervento. Le implicazioni di questa scelta non possono non apparire paradossali. Dopo 30 anni in cui la cultura economica ufficiale era stata considerata nel PCI prima irrilevante, poi in ogni caso subalterna alla politica, questo partito, senza quel dibattito che in fondo c’era stato nel PSI, senza un vero ripensamento della propria esperienza, ribalta questa posizione per una decisione che, va sottolineato, è tutta politica. Fare riferimento ad un mercato “non emendabile” vuol dire infatti che da quel momento saranno le questioni economiche, ed i vincoli che da queste derivano, a condizionare la politica.
Una sinistra con problemi di identità, 1992-2007
La svolta degli anni ’80 che coinvolge prima il PSI e poi il PCI è profonda e si colloca all’interno di un contesto politico in forte cambiamento. Si sono trasformati in primo luogo i partiti in cui assumono un ruolo centrale le figure dei leaders. Diventa più difficile parlare di vere e proprie identità dei partiti che cessano di essere luogo di elaborazione delle idee. Si interrompono le pubblicazioni di Rinascita, Mondo Operaio, Politica ed Economia. Con la caduta del muro di Berlino, cambia anche il contesto internazionale. La cultura economica della sinistra è fortemente influenzata dal nuovo ambiente politico che si viene a creare. Tramontato il mito del mondo socialista, indeboliti i partiti, la tendenza al conformismo diviene inevitabile per partiti che vogliono svolgere un ruolo centrale di governo. L’ortodossia economica diviene il necessario punto di riferimento soprattutto per gli eredi di un partito che aveva basato la propria identità su una eterodossia tanto forte quanto “mitica”. Il fatto che la visione dell’economia sviluppata dalle socialdemocrazie sia rimasta estranea a gran parte della sinistra italiana non poteva che ridurre le resistenze ad un cambiamento così radicale. L’eterodossia economica continua invece a svolgere un ruolo centrale come retroterra culturale dei partiti minori della sinistra, che in questo modo si pongono come gli eredi della identità storica del PCI. Il risultato di queste scelte è che, dal punto di vista della visione economica, le differenze tra la componente maggiore della sinistra ed i partiti della destra tendono a diminuire drasticamente. Pur facendo entrambi gli schieramenti riferimento al mercato, la sinistra finisce col rappresentare quella parte della società disposta a farsi carico, attraverso politiche pubbliche, di un certo livello di sacrifici in nome della solidarietà. La destra col rappresentare invece la parte meno sensibile alla questione dell’equità o, in ogni caso, meno disposta ad utilizzare strumenti autoritari di equità. Le vere differenze possono essere individuate in un atteggiamento di maggiore austerità della sinistra che trova nella Banca d’Italia una sponda importante (e viceversa) ed in una maggiore attenzione ai rapporti con le istituzioni europee.
Osservazioni conclusive
La profonda trasformazione della cultura economica della sinistra ha indubbiamente comportato un alto costo politico. Da un lato ha omologato la componente maggioritaria su posizioni che in qualche modo ne hanno messo in discussione l’identità storica e soprattutto il suo ruolo di punto di riferimento dei gruppi sociali più deboli. Dall’altro ha determinato il sorgere di una sinistra che, rifacendosi in maniera più o meno esplicita alla tradizione del PCI, ha finito con l’ereditarne anche tutte le ambiguità. La crisi di questi mesi può essere un occasione per superare problemi e divisioni. La crisi infatti ha messo in evidenza il fallimento di un modello di sviluppo centrato sul mercato e ha dimostrato che la fiducia nel mercato non può mai trasformarsi in una delega allo stesso del progetto del futuro, in una rinuncia della politica ad immaginare un percorso di cambiamento ed i possibili punti di arrivo. Lo sforzo di delineare una politica economica attenta all’equità sociale, cruciale per l’identità della sinistra (come aveva sottolineato Bobbio), non può essere visto come un tentativo generoso di ripartizione di costi sulla società, quanto come individuazione di un progetto centrato su un patto sociale (e di distribuzione del reddito) e, proprio per questo, capace di garantire uno sviluppo stabile nel lungo periodo.
(1) R. Schiattarella, La sinistra e l’economia, in Democrazia e diritto n. 1/2009, Franco Angeli