La lotta contro l’austerity, in Grecia, è il cavallo di troia di una battaglia più grande, non solo economica ma eminentemente politica in seno all’Unione europea
La vittoria di Syriza in Grecia e la successiva battaglia europea sull’austerity sono avvenimenti di grande importanza che vanno oltre ai più che giustificati clamori della cronaca. La questione centrale della discussione, come Tsipras non ha mancato di far notare è la riconciliazione della sovranità popolare e del mandato elettorale con le istituzioni europee.
La lotta contro l’austerity è dunque il cavallo di troia di una battaglia più grande, non solo economica ma eminentemente politica. L’Unione Europa è prima di tutto una istituzione economica (un solo mercato, una sola moneta) con alcune istituzioni politiche che non hanno neppure la parvenza di una struttura statuale federale. I trattati, a cominciare da Maastricht pongono una camicia di forza sulle opzioni politiche disponibili, tracciando un quadro di disciplina fiscale ed indipendenza della politica monetaria che è anche un programma politico apparentemente inderogabile. Il management economico è, almeno nominalmente, a-politico, in realtà è a-democratico in quanto non nella disponibilità del conflitto politico. Esistono certo i parlamenti, sia nazionali che europeo, ma ci si aspetta che legiferino su temi non fondamentali o, altrimenti, ratifichino le decisioni prese dai vertici.
Fino ad ora, questo non è stato un problema: da una parte, un paio di decenni di tranquillità economica non hanno richiesto particolari scostamenti dai trattati; dall’altro e soprattutto, anche quando la crisi ha squassato il Continente, le due principali famiglie politiche europee hanno dimostrato di essere perfettamente allineate nella loro fedeltà al paradigma neoliberale.
L’arrivo di Syriza ha rotto questa unità che potremmo anche chiamare Berlin Consensus: un ordo-liberalismo di fatto basato su regole intoccabili ed anche, in parte, sugli interessi tedeschi, creditori principi e quindi, per forza di cose egemoni di una unione economica.
In questa ottica, il mandato elettorale, e la legittimità democratica del nuovo governo greco rappresentano una situazione nuova e potenzialmente distruttiva. Al tavolo europeo si sono seduti degli alieni, con cui è impossibile intendersi anche su un minimo lessico comune. Una incomunicabilità, registrata perfettamente da un articolo del Wall Street Journal che, riportando le confidenze di un alto ufficiale presente agli incontri, raccontava di “18 ministri delle finanze seduti attorno ad un tavolo insieme ad uno stravagante economista radicale che non è mai stato al governo in precedenza”. Cioè, che non capisce quali siano le regole e che pensa che il suo dovere sia fare quello per cui è stato eletto dal suo popolo.
La crisi economica è quindi una crisi politica che mette a nudo i limiti strutturali del progetto europeo. L’incomunicabilità tra Varoufakis e Schauble va oltre il pur stringente e potenzialmente dirompente tema dell’austerity, riguarda il ruolo della democrazia nell’Europa di oggi e in quella di domani. La domanda da porsi è dunque prima di tutto politica, direi quasi storica. Che fare?
Proprio da Syriza ci arrivano due risposte drasticamente opposte, e non è certo una sorpresa che siano due economisti eterodossi a darle, l’attuale ministro Varoufakis da una parte, e Costas Lapavitsas, docente a SOAS e parlamentare di Syriza dall’altra.
Entrambi partono, in realtà, da una analisi simile e molto critica sulle istituzioni europee ed a maggior ragione sulle politiche finora condotte, e non potrebbe essere altrimenti. La differenza è, piuttosto, nel significato dato alla crisi economica prima e politica poi dell’Europa. Per Lapavitsas la crisi può essere un momento palingenetico: distruggere la gabbia neo-liberista della UE per ripristinare la sovranità popolare, drastica fine dei paradigmi che hanno portato al disempowerment del popolo e della democrazia: banche centrali indipendenti che tutelano il sistema finanziario privato e non i lavoratori, politiche fiscali conservatrici, interessate al pareggio di bilancio e non alla piena occupazione, e dunque, più in generale, difesa dei mercati e del capitale e progressivo schiacciamento del mondo del lavoro. Non combattere questa battaglia vorrebbe dire lasciarla alla destra radicale, pronta a prendere le redini della lotta contro un’Europa morente e irriformabile. Il bicchiere del compromesso di Bruxelles è dunque più che mezzo vuoto, è quasi interamente vuoto e l’incomunicabilità tra Syriza ed Eurogruppo è la prova più evidente che bisogna uscire dall’Euro.
Per Varoufakis è esattamente l’opposto. L’uscita dalla crisi non può essere a sinistra, una sinistra drammaticamente impreparata a dare risposte alla crisi, forse irreversibile, del capitalismo democratico. Il rischio dunque è una deriva reazionaria, forse fascista ed in maniera decisamente anti-democratica. Bisogna dunque salvare il salvabile, l’ormai sempre più flebile compromesso del capitalismo europeo. Salviamo l’Europa, ed il suo capitalismo da se stessa, in nome della difesa del poco che abbiamo. Dunque, il bicchiere di Bruxelles è mezzo pieno: abbiamo scalfito il Muro di Berlino. Non lo possiamo abbattere da soli ma lo possiamo rendere instabile, magari in attesa di aiuti (Podemos) o alleanze internazionali.Un bivio dirimente per il futuro della sinistra, della democrazia, dell’Europa.