L’occupazione del Teatro Valle, nata come protesta tre anni fa, è diventata un simbolo di lotte per i beni comuni e per una differente visione e politiche culturali, oltre la logica del privato e del pubblico. In questi giorni si è aperto il capitolo due di questa storia. Come scriverlo, dipende da tutti noi
L’Italia si trova in una crisi che sembra non avere fine. La stessa parola “crisi”, che rimanda a un fenomeno di rottura e di breve periodo, è ormai inadatta a descrivere anni di recessione e di ulteriore crescita delle diseguaglianze di reddito e ricchezza. Fasce sempre più ampie di cittadini scivolano nella povertà, crollano consumi e investimenti, mentre i continui tagli ai servizi pubblici imposti nel nome dell’austerità colpiscono le stesse classi più deboli del Paese. Chi non ha alcuna responsabilità per la situazione attuale non solo ne subisce le maggiori conseguenze ma è anche chiamato a pagarne il conto in termini sia di perdita di diritti sul lavoro e precarietà, sia di calo del “reddito indiretto”, ovvero nell’accesso ai servizi essenziali.
Le presunte soluzioni consistono nell’inasprire le cause che ci hanno trascinato nella crisi. Nell’immaginario, il disastro causato dal sistema finanziario privato è stato usato come alibi per procedere con un ulteriormente smantellamento del settore pubblico. Le parole d’ordine sono austerità, tagli, privatizzazioni. Senza considerare quanto le privatizzazioni del passato, dalla Telecom, all’Ilva all’Alitalia, solo per fare alcuni nomi, siano state un completo fallimento. Senza valutare quanto anni di applicazione acritica dei dogmi della Troika abbiano portato non solo a un disastro sociale e occupazionale, ma persino a un continuo peggioramento del rapporto tra debito e Pil, assunto a parametro fondamentale per giudicare dello stato di salute di un Paese.
Un modello che non viene rimesso in alcun modo in discussione. L’unica indicazione è sulla necessità di “fare le riforme”, espressione tanto vuota quanto onnipresente sui media nazionali. Non è unicamente una questione di ingiustizia sociale, né di politiche economiche errate. Ancora a monte, se tutto deve essere affidato alla presunta efficienza del mercato, il pubblico diventa un mero esattore che non eroga servizi in cambio di imposte sempre più esose.
L’alternativa non può essere un sistema pubblico caratterizzato da gigantesche inefficienze, da clientele, sprechi e corruzione; un pubblico che fissa tra le proprie priorità le grandi opere o i cacciabombardieri ma taglia su attività culturali, ricerca e istruzione.
È così che ci si trova stretti in una morsa tra teoria e pratica. Da un lato un’ideologia che pone come assioma il libero mercato, dall’altro un’evidenza di un settore pubblico spesso indifendibile e contemporaneamente in prima fila a sostenere la necessità di privatizzazioni. Uscire da questa morsa significa pensare nuove soluzioni, mettere in campo nuovi modelli che sappiano andare oltre l’attuale dicotomia pubblico-privato. Tanto nell’analisi quanto nella pratica, la parola chiave è la partecipazione dei cittadini. E’ su queste basi che da quindici anni Sbilanciamoci!, una rete di cinquanta organizzazioni della società civile italiana, studia la spesa pubblica e mostra come diverse politiche economiche sarebbero possibili e realizzabili per ridurre le disuguaglianze, per un diverso modello di sviluppo, per “la pace, i diritti, l’ambiente”.
Tra i settori più martoriati da tagli e austerità, uno è sicuramente quello delle politiche culturali, a partire dal famigerato “con la cultura non si mangia” dell’allora ministro Tremonti, emblema di una cultura considerata unicamente se produce Pil. Politiche disastrose, assenza di diritti e precarietà per lavoratrici e lavoratori dello spettacolo che nel 60% sono attorno alla soglia di povertà, mentre in dieci anni sono stati tagliati 1,6 miliardi di euro all’investimento pubblico nel settore e assistiamo a un continuo calo nella fruizione da parte del pubblico all’offerta culturale.
È questa la cornice che oltre tre anni fa ha dato vita all’occupazione del Teatro Valle. Un atto nato come protesta e che nel tempo ha saputo trasformarsi ed elaborare una proposta tanto innovativa quanto concreta: il modello dei beni comuni per andare oltre il pubblico e il privato. Una Fondazione costituita da oltre 5.000 soci e aperta a chiunque voglia prendersi cura del teatro, con cariche turnarie e altri principi che promuovono una piena partecipazione non solo di artisti e maestranze dello spettacolo, ma di tutti i cittadini.
Un modello che in fase di occupazione ha sperimentato nuove forme di gestione ed economie, mentre migliaia di artisti attraversavano uno spazio divenuto luogo di relazioni, di incontri e di elaborazione culturale, sociale e politica. Il marzo scorso il Teatro Valle Bene Comune ha ricevuto a Bruxelles dalla ECF-European Cultural Foundation il premio Princess Margriet 2014, per la prima volta assegnato all’Italia. Secondo la giuria, “un teatro vivo e accessibile a tutti, dove la cultura diviene uno spazio in cui le persone si possano unire, producendo nuovi valori e nuove forme di vita sociale e promuovendo nuova partecipazione democratica”.
Tre anni fa il Valle rischiava di andare in mano a un gestore privato. L’ipotesi di un bando è stata scongiurata, il teatro rimane pubblico. Il Comune di Roma ha affidato il Valle a Teatro di Roma, riconoscendo l’esperienza di questi tre anni di occupazione e aprendo all’idea di una sperimentazione con la Fondazione Teatro Valle Bene Comune.
Che il Valle rimanga pubblico è solo il primo passo. Come accennato, occorre adesso andare oltre la dicotomia pubblico-privato. La fase che si apre è probabilmente ancora più innovativa e ancora più difficile della precedente. Promuovere l’idea del comune nel confronto con il pubblico, arrivare a meccanismi di autogoverno, mantenere il teatro come agorà di discussione ed elaborazione politica, realizzare pratiche di partecipazione della cittadinanza che sappiano rendere vivi i principi elaborati nello statuto della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Contaminare le istituzioni e il rapporto con il pubblico partendo dal basso, mostrare come gli elementi non solo di novità ma di rottura possono trasformare la gestione di un luogo.
Mettere in pratica tale visione non dipende unicamente da chi ha mantenuto viva l’occupazione del Teatro Valle. Dipende dalle decine di migliaia di persone che in questi anni l’hanno conosciuto, vissuto e attraversato, diventando soci della Fondazione o solo entrandovi una sera per curiosità. In questi tre anni il Valle è stato molto più di un teatro occupato, diventando simbolo di lotte per i beni comuni e per una differente visione e politiche culturali. Inizia adesso il capitolo due. Come scriverlo, dipende da tutti noi.