“La crescita greca è un’invenzione, il paese è in piena Grande Depressione, e tutto questo perché si è scelto di salvare le banche a spese dei cittadini. Ma ora, con Tsipras, il paese è pronto a cambiare rotta. E a far cambiare rotta all’Europa”. Intervista a Yanis Varoufakis, economista molto vicino a Syriza
Il 9 dicembre 2014 verrà ricordato come l’inizio della “seconda crisi dell’euro”? In un solo giorno la borsa di Atene ha perso quasi il 13% del suo valore, mentre i tassi di interesse sui titoli di stato greci a dieci anni sono schizzati dal 5.5% al 9%. A scatenare il panico sui mercati la decisione del primo ministro Antonis Samaras di anticipare a questo mese l’elezione del presidente della Repubblica. Si tratta di un azzardo non da poco per Samaras: se non sarà in grado di ottenere un numero sufficienti di voti in parlamento per il suo candidato, l’ex commissario europeo per l’Ambiente e più volte ministro Stavros Dimas, la Costituzione prevede la convocazione di nuove elezioni politiche. E al momento tutti i sondaggi danno favorita Syriza, la forza della sinistra radicale guidata da Alexis Tsipras. Ecco spiegata la reazione isterica da parte dei mercati, e quella altrettanto preoccupata dell’establishment europeo, con il presidente della Commissione europea che si è espresso a nome di tutta Bruxelles, o quasi, augurandosi che i greci non votino “in modo sbagliato”. Tali reazioni sono difficili da giustificare: a dispetto di quello che spesso riportano i giornali, Tsipras non ha nessuna intenzione di portare la Grecia fuori dall’euro, e per quel che riguarda il suo piano di ristrutturazione del debito greco – l’ipotesi che probabilmente spaventa di più i mercati –, la sua intenzione non è quella di colpire i creditori privati ma piuttosto i creditori ufficiali: l’Unione europea e in particolare la Germania (che detengono il grosso del debito greco). Di questo e altro abbiamo parlato con Yanis Varoufakis, economista molto vicino a Syriza nonché autore della “modesta proposta” per riformare l’eurozona (vedi qui).
La Grecia, che oggi mostra un tasso di crescita economica tra i più alti di tutta l’Unione, viene presentata dai fautori dell’austerità come una dimostrazione dell’efficacia del consolidamento fiscale e della svalutazione interna, che avrebbero reso l’economia greca più efficiente e competitiva. Cosa ne pensa?
Penso che sia una perversa distorsione della realtà. La Grecia è in piena Grande Depressione. Sono sette anni che i redditi e gli investimenti nel paese sono in caduta libera; questo ha determinato una vera e propria crisi umanitaria. E ogni anno la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale ci dicevano che la ripresa era “dietro l’angolo”. Non era affatto così. E adesso, sulla base di un trimestre di crescita del Pil reale, sono tutti lì a festeggiare la “fine” della recessione! Ma se si guardano attentamente i numeri, ci si rende conto che siamo ancora in recessione, anche in base ai dati ufficiali. La spiegazione è piuttosto semplice: nello stesso periodo in cui il Pil reale è cresciuto dello 0.7%, i prezzi sono caduti in media dell’1.9%. Per chi non lo sapesse, il Pil reale equivale al Pil nominale (ossia calcolato in euro) diviso per l’indice dei prezzi (il cosiddetto deflatore del Pil). Considerando che questo indice è sceso dell’1.9%, e che il Pil reale è aumentato solo dello 0.7%, questo vuol dire che il Pil misurato in termini nominali, ossia in euro, è sceso! Dunque la crescita del Pil reale non dipende dal fatto che il reddito nazionale, in euro, è cresciuto; dipende dal fatto che esso è caduto più lentamente dei prezzi. E ora l’establishment politico, sia europeo che nazionale, vorrebbe vendere ai greci questo piccolo trucco contabile come la “fine della recessione”. Ma non funzionerà.
Pil al -25%, disoccupazione ai massimi livelli dai tempi della seconda guerra mondiale: pensa che questi siano semplicemente gli effetti indesiderati di politiche “sbagliate”, o possono essere considerati il frutto di un disegno preciso?
Nessuna delle due, credo. Queste politiche erano le uniche che non comportavano un’ammissione del fatto che l’architettura dell’eurozona è fondamentalmente disfunzionale, e che la crisi era sistemica e non “greca”. Ma soprattutto, erano le uniche ad essere compatibili con quello che era l’obiettivo principale dell’establishment: salvaguardare i banchieri da qualunque tentativo di espropriazione da parte dell’Unione europea o degli stati membri. Ed è così che una nazione piccola ma fiera è stata costretta a implementare una feroce politica di svalutazione interna che ha causato e sta causando enormi sofferenze alla popolazione, oltre ad aver fatto lievitare il debito privato e pubblico del paese a livelli insostenibili, e tutto questo per mantenere l’illusione che l’architettura dell’eurozona fosse sostenibile, e per scaricare le perdite colossali delle banche private sulle spalle dei cittadini comuni, dei lavoratori e dei contribuenti. Una volta decisa la strategia, l’hanno poi ammantata di propaganda neoliberista per renderla più appetibile…
I mercati hanno reagito in maniera isterica alla decisione di procedere all’elezione anticipata del presidente della Repubblica, perché temono che questo spianerà la strada ad elezioni politiche anticipate. È una paura giustificata? E perché temono così tanto la prospettiva che la Grecia torni alle urne?
Sì, è giustificata. È difficile che Samaras riuscirà a far eleggere il suo candidato. E quello che temono è lo scoppio delle due bolle economiche gonfiate ad arte da Berlino, Francoforte e Bruxelles negli ultimi anni, quella dei titoli sovrani e quella dei titoli di borsa, che avevano lo scopo di alimentare l’illusione della “ripresa greca”. Ma questo è il destino di tutte le bolle: alla fine scoppiano. E prima lo faranno meglio sarà, perché ci costringerà a guardare finalmente in faccia la realtà e a darci da fare per migliorare le condizioni di vita di tutti, sia in Grecia che nel resto dell’eurozona.
Pensa che la vittoria di Syriza sia un’ipotesi realisticamente possibile? O ritiene che le forze conservatrici dell’establishment greco – ed europeo – siano disposte a tutto pur di sbarrargli la strada?
Entrambe le cose. Non c’è alcun dubbio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con successo in passato, sia destinata a fallire. Una vittoria di Syriza al momento sembra sempre più probabile.
Come giudica l’augurio di Juncker affinché i greci non votino “in modo sbagliato”?
Direi che dimostra un profondo disprezzo per la democrazia, e un atteggiamento neocoloniale che si fa beffa dell’idea secondo cui l’Unione rispetta la sovranità dei suoi stati membri. In teoria, è la Commissione europea che è tenuta a rispondere delle sue scelte di fronte ai cittadini degli stati membri, e non i cittadini che sono tenuti a rispondere delle loro scelte di fronte alla Commissione. E per definizione la Commissione non può esprimere alcun giudizio di merito sull’esito di un’elezione. E non può di certo dire quale sia il candidato “giusto” e quello “sbagliato”. Con questa affermazione, Juncker ha fatto cadere ancora più in basso la reputazione della Commissione, già ai minimi storici, e ha allargato ancora di più il deficit democratico dell’Ue. Il suo intervento è stata una delle mosse più anti-europee che si potessero immaginare, in quanto è riuscito a delegittimare in un colpo solo sia la Commissione che l’Unione stessa.
Ci può descrivere in breve i punti principali del programma di Syriza?
In primo luogo, un governo guidato da Syriza farà di tutto per far sì che l’Europa affronti i nodi che finora si è rifiutata di affrontare: la disfunzionalità dell’architettura dell’eurozona, e il fatto che i cosiddetti “salvataggi” della troika – che erano tutto fuorché dei salvataggi – sono stati molto deleteri sia per i paesi della periferia che per quelli del centro, inclusa la Germania. In secondo luogo, si sforzerà di ricostruire e di rimettere in moto l’economia sociale della Grecia per mezzo di un “New Deal per l’Europa” finalizzato a tirare tutta la periferia, e non solo la Grecia, fuori dalla depressione. Infine, si adopererà per riformare sia il settore privato che quello pubblico al fine di incrementarne la creatività e la produttività, e per costruire una società migliore.
Il ritorno alla normalità passa necessariamente per un default su una parte del debito pubblico?
Sì, e questo non vale solo per la Grecia. La Grecia farà senz’altro default a un certo punto, ma probabilmente non lo farà in maniera formale, ma con un taglio del debito greco nei confronti del resto dell’Europa. E a quel punto, poco dopo, seguiranno l’Italia e poi la Spagna e il Portogallo. Di fatto rappresenterà il primo passo verso una specie di unione fiscale: quando uno stato ha avuto in prestito dagli altri e non è in grado di ripagare al tasso concordato, è una specie di unione fiscale, ma una specie terribile, la peggior specie, un’unione fiscale per default.