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La ripresa cinese e l’enigma finanziario

L’evoluzione del sistema finanziario e della regolazione dei flussi di capitale in entrata ed uscita è una delle caratteristiche più particolari e conflittuali del ‘socialismo con caratteristiche cinesi’. Tuttavia è bene analizzare le contraddizioni e gli interrogativi sull’andamento dei flussi finanziari della Repubblica popolare.

Nel mese di aprile la pubblicazione da parte del National Statistics of Bureau of China (NSBC) dei dati Pil del primo trimestre mostrava un crollo del 6.8%, mettendo nero su bianco il profondo impatto della pandemia Covid-19 sulla più dinamica economia del XXI secolo e seconda potenza globale. Tuttavia, i dati del secondo trimestre sembrano rivelare che la ‘prima a cadere’ sia anche la prima a rialzarsi. 

Gli indici di confidenza del settore industriale e della produzione dei servizi sono tornati ai livelli pre-crisi, e il conto corrente della bilancia dei pagamenti (BdP) del secondo trimestre è tornato a registrare un importante surplus di 110 miliardi di dollari (780 mld di RMB), un avanzo di 161 miliardi nell’esportazioni di merci ed un deficit di 29.5 miliardi nello scambio di servizi.  

Complessivamente il Pil del secondo trimestre ha registrato una crescita del 3.2%, dato invidiabile se messo in relazione alla gravità della recessione sperimentata dai paesi occidentali. L’Eurozona nel secondo trimestre ha registrato un – 12.1% (Eurostat), mentre il Bureau of Economic Analysis degli Stati Uniti ha riportato un crollo del 31.4% nello stesso periodo di riferimento. 

Ovviamente questa situazione critica a livello globale mina un rilancio complessivo dell’economia cinese che, pur senza nuove escalation pandemiche, difficilmente potrà andare oltre una crescita del 2.5% (Standard Chartered Global Outlook), ma relativamente ai competitor internazionali il 2020 cinese sembra ugualmente rappresentare un successo per il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’.

Tuttavia questo singolare momento del processo di crescita della Repubblica Popolare Cinese (RPC) approfondisce interrogativi sull’andamento e la gestione dei flussi finanziari. Enigmi evidenti se si osservano le consistenti fluttuazioni del conto finanziario della BdP dell’ultima decade (Figura 1), nella quale la Cina, all’interno di un complessivo aumento di movimenti di capitale in entrata ed uscita, ha alternato surplus a pesanti deficit.

Figura 1: Andamento del conto finanziario e voce ‘Errori e Omissioni’ in Cina tra il 2011 e il 2020*.

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Fonte: FMI e NBSC.

Tornando all’analisi dei dati del 2020, i primi due trimestri del conto finanziario riportano un deficit di 29,2 miliardi di dollari (evidenziato in rosso sia in figura 1 sia in figura 2). A questo deficit non particolarmente elevato è necessario tuttavia sommare una ben più ingente fuoriuscita di capitali per 53 miliardi afferenti all’opaca voce di ‘errori netti e omissioni’ (in verde, figura 1) per un totale di 82 miliardi nella prima metà dell’anno pandemico. 

Se si osserva unicamente il secondo trimestre, quello che coincide con la fine del lockdown in tutto il paese (l’8 aprile a Wuhan nell’Hubei è l’ultima riapertura), sia il flusso in uscita di capitali sia la voce ‘omissioni’ hanno trend più marcati. Il deficit di conto finanziario è di 15.3 miliardi e le ‘omissioni’ in uscita ammontano a 76 miliardi (Q2: evidenziati in azzurro, figura 1). 

Se si analizzano le voci dettagliate della BdP del 2° trimestre finanziario si nota che gli investimenti diretti esteri (IDE) hanno ripreso un corso ‘normale’ con flussi in uscita pari a 29.2 miliardi e 33.4 in entrata (in viola, figura 2). 

Più complessa e instabile è la voce legata agli investimenti di portafoglio che dopo aver registrato un forte deficit nel primo trimestre (53.2 miliardi) nel secondo quarto ha riportato il record di 66 miliardi di capitali in entrata generando un surplus di pari a 42.4 miliardi (in azzurro, figura 2).

La voce più ‘preoccupante’ è quella della categoria residuale ‘altri investimenti’ nella quale la Cina ha riscontrato un deficit di 58 miliardi nel solo secondo trimestre (sottolineato in nero, figura 2). 

Figura 2: Dettaglio Conto Finanziario della Cina nei primi due trimestri 2020.

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Fonte: NBSC. Legenda: Q1: primo trimestre, Q2: secondo trimestre, H1: primo semestre. Abbreviazioni: Liab: Liabilities, IP: Investimenti di Portafoglio, Der. Fin: Derivati Finanziari, AI: Altri Investimenti.

Questo breve resoconto dei flussi finanziari in entrata ed uscita mostra quindi delle spinte contraddittorie: da un lato gli alti tassi di interesse proposti dai mercati di Shanghai e Shenzhen sovrapposti alla più rapida ripresa cinese sembrano conferire alla Cina il ruolo inedito di mercato rifugio (per una panoramica più esaustiva si veda ‘L’economia cinese dopo il Covid-19’), dall’altro gli elevati e costanti negativi della voce ‘errori netti e omissioni’ e i deficit finanziari, seppur lontani dall’emorragia di capitali  verificatisi durante la crisi finanziaria del 2015-2016, invertono la tendenza di una Cina importatore netto di capitale.  

Queste spinte opposte offrono la possibilità di ragionare sulla delicata relazione tra processo di crescita della RPC e gestione dei flussi di capitale. 

Infatti, l’evoluzione del sistema finanziario e della regolazione dei flussi di capitale in entrata ed uscita è una delle caratteristiche più particolari e conflittuali del ‘socialismo con caratteristiche cinesi’.

Questa complessa miscela di Stato e forze di mercato e di proprietà pubblica e privata (dual track system) ha prodotto graduali e progressive liberalizzazioni economiche che hanno solo parzialmente compreso la sfera finanziaria. 

Com’è noto, la non adesione cinese al modello di completa deregolamentazione dei movimenti di capitale non l’ha esclusa dal divenire un attore centrale dell’allocazione di capitale su scala globale. 

Nel 1978, nella prima era della ‘politica della porta aperta’ di Deng Xiaoping, l’emanazione della Law on Foreign Joint Ventures fornì un quadro legale molto repressivo, autorizzando l’ingresso di capitali in forma di IDE unicamente verso le quattro zone economiche speciali (ZES) stabilite dalle autorità centrali di Pechino (nota 1). 

Nel 1992, il riassorbimento del movimento di protesta di Piazza Tienanmen conferì una salda leadership all’ala ‘liberale’ di Deng, permettendo l’avvio di una seconda fase di liberalizzazione dei flussi in entrata. Le restrizioni settoriali e geografiche degli IDE furono notevolmente allentate e le autorità economiche ‘sviluppiste’ promossero ancor più attivamente la formazione di aziende a capitale misto tra locale e straniero (Joint Ventures).

Nel 1997 la Cina era il terzo paese al mondo, dopo Stati Uniti e Regno Unito, per flussi di IDE in entrata con circa l’8.5% degli IDE globali (World Bank Data), mentre la sua ascesa come esportatore di investimenti esteri, attraverso multinazionali private ed imprese di stato, inizierà negli anni successivi alla ‘grande recessione’ del 2007-08. 

Il 1997 è un anno fondamentale per comprendere la postura del Partito Comunista Cinese (PCC) nella gestione dei flussi di capitale. In quell’anno la crisi monetaria asiatica, scaturita dal crollo del Bath Thailandese, investì l’intera Asia orientale ma risparmiò parzialmente la Cina che, con il suo stretto controllo sui capitali, riuscì a proseguire la mirabolante crescita del PIL registrando un più 7.8% nel 1998. 

Questa crisi finanziaria diede vita ad una politica di allocazione dei surplus commerciali che negli anni successivi sarebbe diventata un pilastro della stretta relazione tra Cina e Stati Uniti: l’accumulazione di riserve di moneta in dollari come strumento per temperare ed anestetizzare nuove eventuali tempeste speculative sui tassi di cambio. 

Tra il 1997 e il 2014, le riserve di moneta della RPC, prevalentemente in dollari, crebbero da 142 miliardi all’astronomica cifra di 4 triliardi di dollari (nota 2).

Tralasciando le riforme minori, la ‘repressione finanziaria’ del PCC subirà un cambio di rotta solamente nel 2013 con il primo anno dell’amministrazione Xi Jinping, quando il terzo plenum del novembre 2013 allentò sensibilmente il controllo sui movimenti di capitale (nota 3). 

Sinteticamente si possono attribuire tre origini a questa scelta ‘sensazionale’: in primo luogo, la crescente capacità della parte più ricca della popolazione cinese di imporre la propria volontà di ricercare maggiori ritorni su scala globale per i capitali accumulati nei 40 anni di crescita economica (nota 4). 

In secondo luogo l’amministrazione di Xi e Li Keqiang scommise sulla possibilità di mantenere una crescita incentrata su alti livelli di investimento attraverso l’accesso al risparmio globale così da poter porre fine all’eccessivo indebitamento pubblico ampliatosi notevolmente dal 2009 per bilanciare la contrazione dell’export verificatasi con lo scoppio ‘grande recessione’ (nota 5). 

Infine, una parziale apertura dei flussi finanziari era considerata un passaggio chiave nel tentativo di internazionalizzare il Renminbi e avviare un processo di sottrazione del commercio cinese dal monopolio del dollaro (nota 6). 

Tuttavia, i tre anni successivi all’apertura finanziaria hanno evidenziato tutte le criticità insite in questo tentativo di mediare un forte controllo statale con la liberalizzazione dei flussi di capitale.

In appena sei mesi l’allentamento della storica postura repressiva innescò nei mercati finanziari di Shenzhen e Shanghai un repentino passaggio dall’euforia al panico.

Nei primi sei mesi del 2015, i listini di borsa crebbero del 61% fino a quando il 12 giugno la bolla finanziaria scoppiò innescando un crollo verticale del RMB ed una vera e propria emorragia di capitali (circa 1.300 miliardi tra il 2015 e il 2016) che sarà arrestata unicamente grazie ad una immissione massiccia di riserve di moneta (calcolata da diversi specialisti tra gli 800 e 1000 miliardi di dollari).

Questo biennio nero della finanza cinese ha immediatamente imposto un ritorno ai più miti sentieri di stretto controllo sui movimenti d capitale e, come si nota nella figura 1, nonostante le continue ed elevate fuoriuscite di capitale alla voce ‘errori e omissioni’, il conto finanziario della BdP cinese ha ricominciato a registrare un surplus di capitali tra il 2017 e il 2019.

Tuttavia, quanto successo nella prima parte del 2020, seppur nel contesto eccezionale della pandemia Covid-19, conferma che una criticità centrale dell’ascesa cinese nell’economia-mondo capitalista si annida nella ricerca di un sistema ibrido di gestione dei flussi di capitale.

Se all’esterno il PCC proietta il successo della gestione pandemica e la rapida ripresa economica, all’interno è stretto tra molteplici pressioni, dal dogma della crescita come antidoto all’instabilità sociale e operaia all’insanabile contraddizione tra la ricerca di emancipazione del capitale privato e la volontà statale di controllo sui capitali(sti) stessi.

Tali pressioni e contraddizioni sono lì per restare e rappresentano uno degli enigmi più stimolanti del XXI secolo, ancora lontano dal dirsi cinese.   

NOTE E RIFERIMENTI

1 Le prime quattro SEZ sono le città costiere di Shenzen, Zhuhai, Shantoou, Xiamen.  

2 Dati tratti da Christopher Dent, East Asian Regionalism (Routledge, 2016).

3 Il terzo plenum della Commissione Centrale del PCC è considerato un momento centrale nella scelta dei percorsi di sviluppo. Come regola generale nel primo anno del nuovo Congresso Nazionale del Popolo il Segretario del Partito tiene due plenum preliminari e meno decisionali, mentre durante il secondo anno del mandato nel terzo plenum introduce i progetti politici ed economici che caratterizzeranno la sua amministrazione. Due famosi plenum sono quello del 1978, quando Deng Xiaoping lanciò la ‘politica della porta aperta’, e quello del 1993 quando Zhu Rongji introdusse il termine ‘Economia di mercato socialista’.
Un riassunto delle principali risoluzioni del terzo plenum del 2013 è disponibile qui https://www.chinabriefing.com/news/china-releases-third-plenum-communique/

4 Per un’analisi più approfondita si veda Victor Shih (2019) ‘China credit conundrum’ (New Left Review). 

5 Per un’analisi più approfondita si veda Barry Naughton (2018) ‘Chinese Economy: Adaptation and Growth’. (Cambridge Press).

6 Si veda Christopher McNally (2019) ‘Chaotic mélange: neo-liberalism and neo-statism in the age of Sino-capitalism’ (Review of International Political Economy).