In dirittura d’arrivo i decreti attuativi della legge delega di riordino del Terzo settore. Oltre 300mila le organizzazioni non profit coinvolte da una riforma con implicazioni che ancora sono sottovalutate
Spesso si parla dell’esigenza di scrivere norme chiare, leggibili e soprattutto applicabili in modo da eliminare o almeno ridurre al minimo, in fase di attuazione, le occasioni che possono generare conflitti paralizzanti tra livelli di governo, o far scatenare controversie letali tra le amministrazioni che saranno chiamate ad applicarle, oppure addirittura temere per la giustificabilità più generale delle scelte adottate, in un epoca in cui tutti i partiti politici riescono a malapena a trovare al loro interno modalità coordinate e lineari di azione.
Non è una storia nuova. È già successo molte altre volte in passato che le norme prodotte dal Parlamento risultassero criptiche e fossero confezionate in un linguaggio fumoso e frustrante per il lettore anche esperto e fossero poco o male applicabili.
Un caso del genere sta per capitare anche per i decreti attuativi, approvati dal Governo il 12 maggio scorso, in applicazione della legge delega di riordino del Terzo settore1. Le bozze provvisorie dei decreti sono in fase molto avanzata di discussione presso le competenti Commissioni della Camera inizialmente e ora del Senato. È probabile che, non appena il cammino si concluderà, qualcuno parlerà di successo, assegnandone il titolo ai Governi Renzi e Gentiloni, che hanno dato rispettivamente impulso e portato a termine l’iniziativa legislativa.
Eppure, nonostante che nel frattempo siano stati consultati molti stakeholder istituzionali e non2, si continua a registrare una diffusa insoddisfazione sull’operazione in corso (più fuori che dentro i palazzi, ovviamente).
Si dirà: succede così da sempre e in ogni campo. Inoltre, si aggiungerà, è altrettanto noto che gli insoddisfatti si fanno sentire e sanno farsi sentire, sempre più di quanto riescano a farlo i soddisfatti. E poi, si concluderà, è più facile e si riceve più attenzione, soprattutto in Italia, quando ci si esprime contro qualche cosa, qualsiasi cosa, piuttosto che in suo favore.
Forse è così, ma sembra che i legislatori qualche volta si mettano proprio d’impegno a scrivere testi misteriosi. Farò un solo esempio sui decreti attuativi dedicati al riordino del Terzo settore: un caso minuscolo in apparenza, ma con effetti potenzialmente rilevanti per l’intero settore e quanti scopriranno che il loro contributo civico, di partecipazione attiva, di solidarietà fattiva non sarà affatto riconosciuto.
Ma veniamo al punto. Modesto e misterioso al tempo stesso. Nella decisione del Consiglio dei ministri del 12 maggio, le organizzazioni di volontariato sono definite, nel primo comma dell’articolo 32 dello “Schema di decreto legislativo recante codice del Terzo settore”, nei seguenti termini:
«Le organizzazioni di volontariato sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a nove volontari o a cinque organizzazioni di volontariato; per lo svolgimento…»
Il medesimo passaggio, nella versione del 22 giugno scorso, dopo l’approfondimento intervenuto nel corso dei lavori della Commissione XII, Affari sociali della Camera dei deputati, è stato modificato e ora recita:
«Le organizzazioni di volontariato sono enti del Terzo settore liberamente costituiti per il raggiungimento di scopi solidaristici, avvalendosi in modo prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti. Sono costituiti (sic!) in forma di associazione riconosciuta o non riconosciuta con almeno sette associati volontari o tre organizzazioni di volontariato, e svolgono una o più delle attività di cui…»
Come è noto viviamo in un’epoca in cui la scrittura dei testi normativi è incerta fino alla fine, almeno quanto è fluida successivamente la loro applicazione. Ma vale la pena riflettere sui passaggi appena citati, in particolare sull’uso dei numeri all’interno dei testi. Non discuto l’uso, tutt’altro che scontato, dell’etichetta di “Terzo settore”. In fondo essa conserva una certa forza evocativa, distintiva e pragmaticamente accettabile. Mi chiedo invece: perché il limite di 9 (o di 7) volontari o di 5 (o di 3) organizzazioni di volontariato?3
Che fondamento empirico hanno simili valori? Oppure: sono stati decisi in analogia con altre fonti normative applicate ad istituzioni appartenenti ad altri “settori” dell’economia?
Sul primo punto, si consideri la tavola pubblicata sopra. In essa sono presentati dati rilevati nel corso dell’ultimo censimento dell’Istat sulle istituzioni non profit italiane, classificate a seconda della presenza o meno di volontari, ed eventualmente di quante dichiarano di operare con 9 volontari o meno.
Delle 301mila istituzioni censite, risultano prive di volontari quasi 58mila unità (pari al 19,2%), mentre oltre 243mila dichiarano la presenza di volontari attivi. Tra queste ultime, quasi 120mila (49,2%) ricorrono a un numero di volontari compreso tra 1 e 9. Le organizzazioni fino 7 volontari, peraltro, includono il 43% circa delle non profit con volontari (103.792 unità).
Dunque, la norma potrebbe eliminare dalla scena civica italiana molte decine di migliaia di organizzazioni di volontariato (e di volontari), non riconoscendo o sottraendo loro quella identità istituzionale che ad altri, come dire, oligopolisti delle virtù civiche sarebbero invece concesse.
Alcuni anni fa Joel Best osservava che i valori numerici incidono sulla comunicazione pubblica come fossero “sassi”, poiché si notano e possono lasciare il segno più di molte parole4. Ci sono numeri, poi, ai quali sono attribuite virtù magiche. Si legge delle qualità misteriose dello zero5, del tre6, del sette7 e anche del 9. Ad esempio, solo pochi giorni fa Lisa Wade, una sociologa, ha pubblicato un breve commento dedicato al “simbolismo del numero 9”8. Come sanno gli esperti di mercato il numero 9 sembra esprimere un certo magnetismo. Sotto il profilo psicologico, infatti, proporre un bene a 9,99 euro anziché a 10,00 euro è efficace poiché è più probabile, in generale, che sia acquistato un bene con il primo prezzo piuttosto che il bene con il secondo. Tuttavia, annota la studiosa inglese, ciò accade non perché il consumatore tenga conto del centesimo che risparmia, ma perché l’acquisto di un bene scontato gli fa immaginare di essere un compratore “sveglio”, capace di cogliere l’occasione quando gli viene offerta, rafforzando la buona opinione che ciascuno prova ad avere di sé.
Nel nostro caso sembra accadere l’opposto. Il numero 9 (o il 7) indica una soglia a partire dalla quale si concede un riconoscimento e al di sotto della quale esso è negato, per legge, indipendentemente da come o cosa si faccia. Tali numeri possiedono sempre una sorta di virtù magica, solo che questa volta tale qualità è destinata ad incidere in senso opposto a quello raccontato da Lisa Wade.
Sul secondo punto, emerge che le scelte normative in via di definizione puntano a “razionalizzare” il mondo del Terzo settore, tutto il Terzo settore, seguendo il filo di una visione che considera la “razionalità organizzativa” – e dunque la capacità di strutturare le proprie attività in modo da rendere “coerenti fini e mezzi per conseguirli” – un valore imprescindibile per tutti coloro che nel settore operano, volontari compresi.
La norma detta un paradigma da imporre a tutti, a prescindere dalle valutazioni e dei punti di vista di ciascuno, e indipendentemente dalla missione perseguita nei singoli casi. Così alcuni arrivano a sostenere che anche le organizzazioni di volontariato debbono staccarsi dal loro humus socioculturale locale, per diventare “formalmente più robuste”, più “affidabili”, più “compatibili” con le esigenze (sottinteso “amministrative”) delle “politiche”, in gran parte locali, che sono chiamate “a servire”. Va da sé che chi sostiene questo tipo di argomento è pronto a minimizzare gli effetti che ne potranno derivare per le organizzazioni di volontariato coinvolte, sia in termini numerici assoluti, sia svilendo la caratura civica degli eventuali esclusi.
Il mondo del volontariato, o almeno quella parte di esso che grazie alla posizione che occupa è in grado di farsi sentire, non dovrebbe far passare simili congetture senza che esse siano sottoposte alla prova dei fatti (insisto: non delle opinioni degli “esperti”, ma alla prova dei fatti!).
Ciò che le piccole organizzazioni non profit possono realizzare non “vale” meno di quello che altre più grandi e con più volontari sono in grado di fare. Soprattutto per coloro che per queste cose decidono di impegnarsi, anche assieme a pochi altri, negli ambiti territoriali di elezione e, magari, senza volerne uscire. Infatti, è di civismo che si parla, di un bene “di lusso” che merita di essere valutato a tutto tondo. Anche nei casi, e sono una gran parte, in cui ciò può apparire modesto agli occhi di qualche legislatore sbadato, forse miope o, peggio, opportunista.
1# Legge del 6 giugno 2016, n. 106, intitolata “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”.
2# Si consulti il sito http://www.camera.it/leg17/522?tema=riforma_del_terzo_settore
3# Nel testo si propongono anche altri valori soglia in grado di incidere sulla organizzazione pratiche delle istituzioni che potranno essere incluse nel “Terzo settore”, muovendosi nella direzione della “razionalizzazione” delle strutture e, si suppone, della loro capacità operativa, accettando evidentemente la conseguente riduzione dell’eterogeneità che ne potrà derivare sotto il profilo fenomenologico.
4# J. Best, Damned Lies and Statistics: Untangling Numbers from the Media, Politicians, and Activists, University of California Press, 2012 (edizione aggiornata).