Le ultime dichiarazioni del presidente della Commissione Juncker non lasciano spazio a dubbi: l’Italia deve accelerare sulle riforme, altrimenti “le conseguenze potrebbero essere spiacevoli”. Parole a dir poco minacciose e la richiesta di un ulteriore giro di vite per inseguire una competitività assunta a fine in se stesso. Dobbiamo abbattere il costo (e i diritti) […]
Le ultime dichiarazioni del presidente della Commissione Juncker non lasciano spazio a dubbi: l’Italia deve accelerare sulle riforme, altrimenti “le conseguenze potrebbero essere spiacevoli”. Parole a dir poco minacciose e la richiesta di un ulteriore giro di vite per inseguire una competitività assunta a fine in se stesso. Dobbiamo abbattere il costo (e i diritti) del lavoro, tagliare la spesa pubblica, ridurre la tassazione sulle imprese. L’obiettivo dello Stato deve essere uno solo: non tutelare i propri cittadini e ridurre le diseguaglianze, ma mettere le proprie imprese nella condizioni di partecipare a una competizione sempre più esasperata, su scala internazionale quanto europea. Essere più competitivi per esportare di più, tutto qui, nel trionfo dell’ideologia mercantilista.
In questi stessi giorni è stato pubblicato dall’Ocse un rapporto che ha sollevato molta meno attenzione delle parole di Junker. Il titolo è “le diseguaglianze danneggiano la crescita?”1. La risposta dell’Ocse è sin troppo chiara: in vent’anni, l’aumento delle diseguaglianze ha causato una perdita di crescita del Pil di 8,5 punti. Un’enormità. Da tempo viene ripetuto come la crisi abbia colpito in maniera sproporzionata le classi più deboli della società, come il 10% più ricco, e l’1% in particolare, veda il proprio reddito continuare a salire mentre non solo il 10% più povero, ma ormai anche buona parte della cosiddetta classe media scivola sempre più in basso. L’Ocse segnala che le conseguenze non sono “unicamente” sul piano sociale. Anche dal punto di vista macroeconomico, l’aumento delle diseguaglianze ha un impatto devastante.
Come scrive Roberta Carlini su Pagina99, in uno dei pochi articoli che hanno ripreso le conclusioni del rapporto dell’Ocse – non proprio un’organizzazione di estrema sinistra –, la strada da seguire è chiara: contrastare le diseguaglianze per rilanciare la crescita. Una lotta da farsi utilizzando diversi strumenti di politica economica: un diverso impianto fiscale che favorisca la redistribuzione, investimenti di lungo periodo nell’istruzione e nella formazione, un migliore sistema di welfare e via discorrendo. Sono alcune delle proposte contenute nel rapporto curato da Sbilanciamoci! sulla Legge di stabilità3 e che mostra come politiche economiche radicalmente differenti sarebbero possibili, se ci fosse la volontà politica di metterle in atto.
All’opposto, in una spirale perversa quanto paradossale, i burocrati della Troika periodicamente ripetono che proprio gli attuali pessimi risultati dell’economia mostrerebbero che non è stato fatto abbastanza sulla strada delle “riforme” per placare l’ira del dio della competitività. In prima fila, quello stesso Juncker che ha guidato prima da ministro delle Finanze e poi da primo ministro il Lussemburgo, oggi al centro dello scandalo delle centinaia di imprese – anche italiane – che eludevano il fisco grazie ad accordi “di favore”.
Miliardi sottratti alle casse pubbliche e in ultima analisi al welfare, all’istruzione e ai servizi pubblici. Ancora peggio, con le imprese che sfruttavano – e sfruttano – le scappatoie messe a disposizione dal Lussemburgo di Juncker e da altre giurisdizioni, il carico fiscale si sposta sul lavoro e sulle fasce più povere della popolazione. Un fenomeno che esaspera ulteriormente le diseguaglianze, con conseguenze devastanti tanto socialmente quanto – come testimonia la ricerca dell’Ocse – economicamente.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: una recessione perdurante, la minaccia di una deflazione nell’insieme dell’Europa, tensioni sociali che crescono, il rischio concreto di un’implosione della stessa Ue. La ricetta di Juncker? Lanciati verso un muro, dobbiamo accelerare. Davanti a un’ostinazione che rasenta il fanatismo, ha forse poco senso provare a esporre un ragionamento economico. Le “conseguenze spiacevoli” le stiamo già vivendo sulla nostra pelle, e temiamo che nulla cambierà finché saranno personaggi del genere a guidare quello che rimane dell’Unione Europa.