Concentrazione, accaparramento, speculazione. Le cause che erano alla base della crisi alimentare del 2007 sono tuttora presenti. E non possono essere risolte con una modernizzazione forzata
La crisi alimentare del 2007-2008 ha rimesso cibo e agricoltura al centro della scena. La fiammata dei prezzi che la caratterizzò è stata analizzata come evento congiunturale determinato da una concomitanza di fattori, sul cui contributo specifico persistono opinioni e analisi fortemente divergenti. Per quanto tra le sue cause siano state individuate anche flessioni produttive in alcune regioni cerealicole e i crescenti consumi in India e Cina, la destabilizzazione del sistema agroalimentare non è dovuta a un peggioramento (tanto meno repentino) dei suoi fondamentali produttivi o a un improvviso impennarsi della domanda di cibo. Anche il recente palesarsi del calo produttivo russo originato dall’ondata di calore e siccità della scorsa estate non può da solo spiegare la rapida ascesa dei prezzi dei cereali e dell’insieme dei generi alimentari che si registra negli ultimi tre mesi. E non è un caso che il Comitato Sicurezza Alimentare delle Nazioni Unite, i cui lavori si sono recentemente conclusi a Roma, abbia dedicato una particolare attenzione al tema della volatilità dei prezzi e alla vulnerabilità che determinano, tanto da metterli in stretta correlazione con la creazione o il rafforzamento di reti di protezione sociale.
È evidente che i tumulti che hanno caratterizzato la crisi alimentare del 2007-’08, e che si sono riprodotti in Mozambico all’inizio dello scorso settembre causando 13 morti, impongono al sistema di governance globale di tornare a farsi carico del problema agricolo e alimentare e di individuare nuovi assetti che contrastino le previsioni di prezzi elevati per i generi alimentari nel prossimo decennio (vedi quelle Fao-Ocse) e di contemporanea compressione dei redditi dei produttori agricoli.
Le distorsioni della filiera, caratterizzata da una crescente concentrazione, il dirottamento della risorsa alimentare verso tuttora crescenti utilizzi energetici e verso una ipertrofica zootecnia industriale, così come i fenomeni speculativi che agiscono a livello finanziario e tramite l’accaparramento di derrate nei periodi di scalata dei listini, contribuiscono a dare un carattere strutturale alla fragilità del sistema agroalimentare. Che le cause che hanno caratterizzato la crisi alimentare di tre anni fa siano tutte ancora in essere, lo ha anche segnalato Olivier De Schutter, il Relatore Speciale dell’Onu per il diritto al cibo, esortando i decisori politici a intervenire su questi fattori a salvaguardia della sicurezza alimentare e degli stessi assetti sociali e politici.
A testimonianza che i fenomeni speculativi siano numerosi ed eterogenei per attori e modalità, di questa destabilizzazione prolungata ne stanno approfittando coloro che ritengono, interessatamente, di dover rilanciare il paradigma produttivista nelle campagne (in primis quelle del sud del mondo) seguendo lo schema della Rivoluzione Verde. L’offerta –mercantile- di sementi di varietà migliorate, non escluse quelle transgeniche, di pesticidi e fertilizzanti assume così un carattere umanitario per garantire messi crescenti a un’umanità sempre afflitta da problemi demografici. Vetrina per questa retorica è l’Africa, la cui immagine funziona sempre bene quando si parla di fame, ora oggetto di una grande offensiva volta a realizzare una seconda Rivoluzione Verde per la quale si è costituita un’alleanza composta da grandi fondazioni filantropiche, industria e personalità quali Kofi Annan.
L’assunto è che se nel 2050 saremo più di 9 miliardi avremo bisogno di molto più cibo che solo una modernizzazione complessiva dell’apparato produttivo può garantire. Vittime predestinate di questo approccio sono i produttori di cibo, per definizione pre-moderni, e il contributo che il lavoro e il presidio sul territorio rurale offrono, rimpiazzati da tecnologie, capitali ed energia fossile oramai disponibili solo a condizione di mercato, dopo che l’estensione a tutto il pianeta dei programmi di aggiustamento strutturale ha spazzato via i piani di ricerca pubblica, di assistenza tecnica e di intervento delle autorità pubbliche a sostegno dell’attività primaria. Ma se capitali e tecnologie sono sempre più elitari e il petrolio sarà sempre più scarso e costoso l’accesso al cibo sarà sempre più aleatorio.
L’interconnessione delle molteplici crisi che emergono in questi anni –ambientale, climatica, economica, sociale, occupazionale, oltre che alimentare- rendono piuttosto evidente come una produzione di piccola scala, diffusa, inclusiva, ecologica presenti soluzioni e ammortizzatori per molte di tali tensioni. Un miliardo e trecento milioni di produttori di cibo non possono più essere visti come bacino di manodopera di sostituzione per l’industria (tra l’altro ormai impossibile da assorbire) o retaggio di un passato, ma come la componente chiave di un rilancio dell’attività agropastorale capace di leggere e curare il caos climatico, di gestire e valorizzare le risorse naturali, di alimentare i mercati interni accorciando e ricontestualizzando anche culturalmente le dinamiche di consumo alimentare.
* sintesi di un articolo comparso su “Rivista di diritto alimentare”, n. 2-2010, in www.rivistadirittoalimentare.it.