Il DEF 2015 mette la R&S in luce come la medicina per rilanciare l’economia, ma non la risparmia, come i suoi predecessori, dalla scure della politica di austerità e ricicla, confezionandoli a nuovo gli strumenti già avviati dal governo Monti e Letta.
Anzi proprio questo governo sembra non fare caso, data l’esiguità delle risorse messe a disposizione, come rispetto all’Unione Europea il nostro paese si trovi in fondo a tutte le graduatorie di R&S. L’Innovation Union Scoreboard della Commissione Europea classifica l’Italia solo come un moderato innovatore appena avanti al Portogallo. I circa venti miliardi di euro spesi in tutto il paese per la R&S rappresentano un’intensità di spesa di 1,2 punti di pil, stabile da diversi anni, contro i due della media europea e rimangono molto lontani dall’obiettivo di un rapporto dell’1,53% di Europa 2020.
Oggi mancano all’appello quattro miliardi di spesa, a parità di pil, per centrare l’obiettivo di Europa2020, 1,53% di R&S, che si dovrebbero concretizzare in uno sforzo di circa 2 miliardi di maggiore spesa pubblica e due di maggiore spesa privata in R&S.
I pochi finanziamenti aggiuntivi sono assai modesti se al netto degli effetti degli spostamenti dei capitoli di spesa. Le maggiori spese in crediti fiscali per R&S nascono da un’aggregazione di vecchie tipologie di crediti d’imposta in un unico strumento con un impegno aggiuntivo netto pubblico limitato, stesso discorso per i 150 milioni aggiuntivi al FFO, il fondo di finanziamento ordinario delle università e nemmeno nelle previsioni di spesa pubblica generali fino al 2019 dei primi due volumi del DEF si trovano cospicui finanziamenti aggiuntivi alla ricerca.
Passando in rassegna i provvedimenti del programma nazionale delle riforme, contentuo nel terzo volume del DEF,si ritrovano provvedimenti noti da anni, sempre imminenti ma ancora in parte non operativi.
L’Abilitazione Scientifica Nazionale voluta dal ministro Profumo, dopo avere creato centinaia di professori abilitati ma non ancora arruolati, oggi è ferma per le modifiche volute del nuovo ministro della Ricerca Giannini, allo stesso tempo non è mai stato avviato un meccanismo simile per i ricercatori lasciando ai giovani dottorandi gli assegni di ricerca come unica modalità.
Il programma nazionale della ricerca subisce lo stesso destino: voluto dal ministro Carrozza, ancora in bozza nel sito del MIUR, è in attesa del vaglio del CIPE, nonostante il DEF lo indichi come già operativo.
Stessa sorte per il dottorato industriale: troppo costoso per università e imprese ancora non è decollato benché il suo regolamento sia già vecchio di tre anni. Il tax credit, basato su un meccanismo di calcolo complesso attende il decreto attuativo, invece l’aumento graduale negli anni della quota premiale dell’FFO è stato stabilito già dai governi passati e probabilmente comporterà maggiori oneri per gli studenti che dovranno pagare rette più care per compensare i minori trasferimenti pubblici nelle università valutate negativamente.
Al riguardo della fuga dei cervelli, non si pensa a nessuno strumento per arginare all’origine il loro deflusso verso gli USA, il Regno Unito e la Germania, mete preferite da molti
Non si trova una parola in termini di nuove assunzioni stabili per i giovani, carriere più appetibili, maggiori fondi di ricerca a disposizione dei giovani ricercatori, ma solo programmi di portata ridotta come il fondo Montalcini che riescono a far tornare appena una ventina di ricercatori l’anno dall’estero. Le radici della fuga dei cervelli scaturiscono anche dalla forza della politica di austerità sul sistema pubblico di enti di ricerca e atenei. Questa realtà emerge dai dati del MIUR, da un recente studio di Banca d’Italia (meno 750 milioni per il FFO in 5 anni), e dalle analisi del CUN che sottolinea la caduta del numero degli studenti e dei professori (questi sono diminuiti di circa un settimo dal 2008).
Il governo non ferma lo smantellamento dell’università italiana, nonostante la sua performance di ricerca sia considerata da diversi studi internazionali tra le migliori al mondo, ma guarda alle imprese nonostante il nostro sistema imprenditoriale si concentri ancora sul made in Italy, ovvero su prodotti a bassa intensità di R&S.
Proprio lo spostamento delle imprese verso le tecnologie più avanzate ha bisogno della ricerca pubblica in salute e non in ritirata e di un numero consistente di capitale umano qualificato, i nodi irrisolti dalle politiche dell’austerità. La ricerca e l’innovazione nonostante il quadro roseo prospettato dal DEF e nonostante i vecchi strumenti proposti, nei prossimi anni corrono il rischio di rimanere ancora più indietro aggravando il distacco del nostro paese dai nostri partner europei.