I dati sulla disoccupazione sono impietosi: sale a oltre il 10% la disoccupazione totale, 35% quella giovanile; prosegue il calo di occupati tra i giovani e nella fascia d’età 35-49 anni
Sono questi i dati dell’Istat nella rilevazione relativa al secondo trimestre del 2012. La contrazione dell’occupazione, in primo luogo causata dai contratti temporanei non rinnovati e poi proseguita con un calo dell’occupazione complessiva, è solo un aspetto della trasformazione del lavoro che si osserva dentro la crisi. Contemporaneamente, assistiamo a una trasformazione qualitativa della domanda di lavoro: se nel 2008 la quota di assunzioni stabili era del 23,6%, già nel 2010 queste rappresentavano solo il 18,9% della domanda di lavoro con una tendenza alla diminuzione[1].
Non solo. La precarietà – che è stata al centro di una sessione della “Contro Cernobbio” organizzata da Sbilanciamoci a Capodarco – ha a che vedere con la riduzione di protezioni, diritti e garanzie associate all’impiego “tipico”, prodotta dalle politiche di austerity giustificate in nome della crisi: una storia che ha tante tappe ma che ne vede due importanti nell’articolo 8 della Finanziaria del settembre 2011 di Tremonti e nella riforma Fornero del 2012, di cui l’attacco feroce e tutto ideologico all’articolo 18 – che tutelava dai licenziamenti arbitrari – è emblema efficace.
Con la crisi, la precarietà ha valicato i confini dei contratti atipici per invadere anche il contratto subordinato a tempo indeterminato, e lo ha fatto principalmente attraverso un’azione di dumping nei confronti del lavoro “tipico”. I contratti precari sono stati il cardine di un processo di generalizzazione del dumping tra diverse condizioni di lavoro e di non lavoro in cui ciascuna categoria è sottoposta al ricatto della sostituibilità: una competizione tra disoccupati, precari e lavoratori dipendenti in cui ciascuna categoria è indebolita dalla presenza di chi ha condizioni peggiori e per questo è disposto ad accettare meno diritti e tutele. Se a uno stadio iniziale di questo processo emerge la disparità di condizioni tra lavoratori, progressivamente si manifesta una dinamica ben più potente e generale: l’erosione di diritti, tutele e salari di tutti.
La precarietà dei contratti temporanei, (parasubordinati, a chiamata e in somministrazione), sembra aver rappresentato il territorio su cui è stato sperimentato un nuovo sistema di organizzazione del lavoro e della produzione. Un sistema che ridetermina il significato del lavoro e della funzione d’impresa. Il primo è stato privato dei suoi connotati costitutivi: cittadinanza, diritti, protezione sociale e ha perso la natura di veicolo di autonomia ed emancipazione sociale. Contemporaneamente, l’impresa, attivando contratti temporanei e risparmiando sul costo del lavoro (che poi vuol dire meno contributi sociali), ha scaricato sui lavoratori il rischio connesso all’attività d’impresa, proprio quello che ha sempre giustificato i profitti, ovvero una remunerazione del capitale ben più forte della remunerazione del lavoro.
Tutto questo ha effetti violenti sulle biografie individuali di chi lavora. La precarietà esce dal contratto di lavoro e invade ogni aspetto della vita delle persone: dalla salute, alle relazioni affettive, alla possibilità stessa di desiderare e aspirare ad altre esistenze. Chi lavora con contratti temporanei non ha solo un orizzonte temporale mozzato, sconta soprattutto l’assenza di reti di protezione che sostengano diritti essenziali: la maternità e la paternità; la malattia, la disoccupazione, la previdenza. Proprio coloro che ne avrebbero maggiormente bisogno sono abbandonati alle fortune individuali e affidati all’unico ammortizzatore sociale di cui (alcuni) dispongono: le famiglie. L’assenza di un sostegno al reddito contro il rischio disoccupazione è un esempio efficace del paradosso: per i lavoratori precari quello di rimanere senza lavoro è molto più che un rischio, tuttavia proprio per questi soggetti (per tutti i parasubordinati e gli autonomi), a differenza di quanto accade per i lavoratori subordinati, non è prevista tutela.
Non è un caso che Guy Standing[2], nel suo ultimo lavoro, paragoni la condizione del precario a quella del denizen soggetto a cittadinanza limitata, contrapposto al citizen soggetto a pieno diritto. L’estromissione dai diritti sociali rappresenta ben più che una disuguaglianza, rappresenta un’autentica lesione della democrazia. Lo spiega bene il sociologo francese Robert Castel[3], che ripercorre il passaggio dallo stato liberale a quello democratico attraverso la costruzione del welfare state, veicolo di libertà sostanziale per i soggetti incapaci di proteggersi attraverso una dotazione privata di risorse economiche. Una proprietà sociale, contraltare della proprietà privata, che con la sua capacità di proteggere anche anche i non proprietari garantisce l’accesso pieno alla democrazia. Ecco perché la precarietà è un attacco alla democrazia.
[1] Ne da conto l’Ires nel Rapporto 08/2011, Un mercato del lavoro sempre più “atipico”: scenario della crisi, a cura di Altieri, Birindelli, Dota, Ferrucci. [2] 2011, The precariat: The new dangerous class, Bloomsbury Academic, London. [3] 2004, L’insicurezza sociale. Che cosa significa essere protetti?, Einaudi, Torino.