Star bene senza Pil/L’austerità è servita a tagliare il welfare e il protocollo di Kyoto si regge su misurazioni che creano altri mercati e non migliorano il clima
I tagli al welfare sono diventati un fenomeno comune nell’era dell’austerità, soprattutto in Europa, dove le politiche conservatrici hanno la meglio. Il più delle volte, queste riforme colpiscono i più poveri e lasciano i ricchi quasi indenni. Inoltre, i tagli sono presentati con un alone d’inevitabilità grazie, come fossero scelte obbligate, grazie ai tecnicismi delle dubbie statistiche che dominano le economie moderne. Governare con i numeri de-politicizza le decisioni: questi ‘dati’ sono, infatti, percepiti non solo con autorevolezza ma come veri e propri rivelatori di verità, e la verità non può essere contestata. Ma vi siete mai chiesti che cosa significhino realmente queste statistiche?
I politici brindano quando aumentano il Dow Jones o il MIB40, come se tali indici misurassero la salute delle nostre economie. In realtà, gli indici azionari si riferiscono solo alle società quotate in borsa con maggiore capitalizzazione. Sono una minoranza delle imprese di un paese. Quando si alzano, significa che più soldi stanno andando verso queste aziende giganti, il che può benissimo significare meno soldi investiti nelle piccole imprese.
Si stappano le bottiglie anche quando l’indicatore economico per eccellenza, l’onnipotente prodotto interno lordo (PIL), mostra seppure timidi segnali di miglioramento. Questo nonostante molti economisti concordino sul fatto che il PIL non sia un buon indicatore della performance economica (figuriamoci del benessere sociale!). Anche l’OCSE afferma che il PIL sia la statistica più controversa del mondo: “Misura il reddito, ma non l’uguaglianza, misura la crescita, ma non la distruzione, e ignora valori quali la coesione sociale e l’ambiente. Tuttavia, i governi, le imprese e, probabilmente, la maggior parte delle persone vi si affida ciecamente”. Questo è esattamente ciò che ha fatto l’Unione Europea: ha elevato il PIL a suo idolo, costringendo gli Stati membri a mantenere il deficit e il debito rispettivamente al di sotto del 3% e del 60% del Pil, portando il benessere sociale in Europa, dalla scuola alla sanità, sotto la giurisdizione di numeri ingiustificati sospetti ed inadeguati.
Lo stesso vale per le politiche ambientali che sono approvate o respinte sulla base di analisi costi-benefici. A prima vista, queste metodologie appaiono razionali. Ma, guardando più da vicino, ci si accorge che i tassi di sconto, termini fondamentali per il calcolo del valore attuale di benefici e costi che si realizzeranno in futuro, assegnano sistematicamente un valore più alto per l’oggi nei confronti del futuro, producendo così una chiara tendenza verso politiche di breve termine. Queste metodologie contribuiscono in maniera decisiva a rimandare azioni chiare contro i cambiamenti climatici. Anche la misurazione del capitale sociale e naturale è diventato un business redditizio, soprattutto per le banche di investimento che hanno gettato l’economia globale nel caos, principali ‘giocatori’ nei nuovi mercati della sostenibilità. Il protocollo di Kyoto si regge interamente su forme di misurazione che permettono il carbon trading, gli offsets e le banche della biodiversità. Il fallimento del mercato europeo per il commercio delle emissioni, con i tanti scandali dovuti alla contabilità ‘creativa’ ed alla frode ci sta mostrando tutta l’inefficacia delle politiche che ricorrono alla misurazione di prezzi per perseguire la sostenibilità.
Esistono migliaia di esempi di come il ricorso alla politica dei numeri abbia prodotto una deriva antidemocratica ed un diffusione senza precedenti di mercati di ogni tipo. La contabilità economica, non a caso, è un’invenzione del capitalismo moderno. Nella politica contemporanea, soprattutto in Europa, i numeri sono stati utilizzati per rafforzare la tecnocrazia a discapito del dibattito democratico. Come sottolineato dall’economista Friedrich Hayek nel 1945, “facciamo uso costante di formule, simboli e regole di cui non capiamo il significato [e che] sono a loro volta diventate il fondamento della civiltà che abbiamo costruito.”
È ovvio che, in assenza di statistiche, le politiche sarebbero dominate da considerazioni impressionistiche e argomentazioni retoriche. Al tempo stesso, però, non dobbiamo accettare ingenuamente che i numeri rivelino dei fatti. In campo sociale ed economico, l’uso delle statistiche è sempre guidato da ipotesi di base, che possono facilmente spingerci verso conclusioni errate e/o di parte, soprattutto quando si tratta di prendere decisioni che riguardano la società nel suo insieme.